sabato 11 ottobre 2008
spaccato di vita...
Prosegue la raccolta di tutti i racconti in concorso per "I giorni del vino e delle rose". Oggi pubblichiamo "Spaccato di vita" di Maria Luisa Rapaggi.
Maria Luisa è nata a Reggio Emilia, dove risiede.
Ha pubblicato tre libri presso la Calderini Edagricole, due romanzi storici rosa presso la Mondadori ed ha vinto due premi letterari con due dei suoi racconti.
Racconto
"SPACCATO DI VITA"
di Maria Luisa Rapaggi
Scruto dalla finestra un lembo di questa campagna sferzata dal vento. Tutto si fa più scuro mentre masse di nuvole grigie si addensano all’orizzonte, ma non mi lascio intimidire. Ignoro il loro rumoreggiare e mi preparo per uscire. Mi piace camminare con questo tempo, l’aria umida sferza il volto allargandomi il respiro e mi regala sentori di pioggia, erba bagnata e uva matura. Guardo la mia terra, ogni albero, ogni vite, ogni sasso sembra raccontare la sua storia e la mia anima di uomo contadino si infrange in questa natura settembrina che pare ancora riconoscere se stessa.
A passi lenti affronto l’antica carraia mentre i percorsi della memoria sfuggono al presente. Alzo lo sguardo e il cielo adesso è terso, sereno, pare quasi dipinto. Il sole di settembre picchia ancora forte sulle teste protette da consunti cappelli di paglia e la terra argillosa, fertile e pesante, sputa il suo calore. Forse domani il tempo cambierà, la vendemmia è quasi terminata, ma bisogna affrettarsi a raccogliere l’ultima uva prima dell’arrivo della pioggia, che finalmente smorzerà la febbre dell’estate. I bambini scalzi si rincorrono giocosi nell’aia mentre il vecchio trattore, scoppiettando e sbuffando, percorre instancabile la tratta dai campi alla cantina. Nell’aria immobile, resa più densa dall’afa, si respira il profumo del mosto che fermenta nei tini.
Mi osservo da lontano, la guerra è finita da pochi anni e i suoi orrori paiono incubi sfocati: è strano il modo in cui ci si abitua rapidamente alla libertà! Ma una grande quercia, piantata il giorno della Liberazione davanti al nostro casale, sta lì a ricordare per chi non vuole dimenticare.
Sono giovane e forte, e la mia pelle è bruciata dai raggi infuocati di questo sole di pianura. Il campanile della chiesa rintocca mezzogiorno e le donne abbandonano di fretta i campi per apparecchiare il pranzo; a casa le più anziane hanno cotto il pane nel forno a legna, tirato la sfoglia e arrostito conigli e carne di maiale. E’ l’ultimo giorno e si fa gran festa. Siamo in tanti fra parenti, amici, giovani lavoranti e bambini e il lungo tavolo di assi pare comparire dal nulla sotto il pergolato di rose, mentre intorno è tutto un fermento al femminile. Fruscìì di gonne, voci sussurrate e risate di ragazze rompono il silenzio della grande casa, che pare aprirsi alla campagna. Un richiamo della “rezdora”, mia nonna, riporta la quiete, ma è solo per un attimo, subito il chiacchericcio riprende più intenso di prima. E’ tutto un gioco e anche mia nonna sorride.
La tavola rivestita di vecchie lenzuola si riempie di piatti e bicchieri scompagnati e i bimbi fanno a gara per portare dal pozzo scure bottiglie di vino corposo rinfrescate dall’acqua di sorgente.
Adesso anche gli uomini abbandonano i filari e lentamente si incamminano verso il casale. Parlano del tempo, dei prezzi dell’uva e della buona gradazione di quest’annata. Qualche giovanotto scruta in lontananza i movimenti sull’aia, alla ricerca di un fazzoletto colorato o di una veste variopinta. Le ragazze si sono cambiate d’abito ed è tutto un gioco di colori quel loro andirivieni. Io riconosco una camicetta rosa e il cuore accelera nel petto.
L’acqua della pompa scende fredda a rinfrescare i corpi sudati degli uomini e sguardi curiosi di giovani donne si posano di nascosto sui loro petti abbronzati. Il pane e il cibo diffondono un profumo invitante, tutti sono affamati e la nonna, soddisfatta, finge di schermirsi per i tanti complimenti. Mio padre, dopo la scomparsa del nonno, avvenuta quando io e lui eravamo in montagna, siede a capotavola. Adesso è lui il capofamiglia di questa stirpe contadina allargata. Si chiama “Le Pietre” il nostro antico casale, a rimembrare l’aspra origine della terra, dissodata e resa fertile dal duro lavoro di generazioni di uomini e donne della famiglia.
Scruto di sottecchi la ragazza che diventerà mia moglie e mi darà tre figli, serve a tavola e ogni tanto i nostri sguardi si incontrano. E’ una bella ragazza, la più bella del paese. Vive i suoi diciott’anni con la timidezza di una adolescenza rubata, ma è il pegno che la nostra generazione ha pagato al delirio di potere di pochi. E’ anche dolce, questa figlia di contadini e fra i capelli setosi e neri porta una rosa. Giocavamo insieme da bambini, ma da alcuni anni a questa parte fra di noi si è intromesso il pudore e adesso ci osserviamo da lontano e lei arrossisce ogni volta che le rivolgo la parola. Mia madre vede e sorride. Stasera, con una scusa, l’accompagnerò a casa e ci scambieremo il primo bacio.
Il cibo è invitante e la fatica è stata tanta; il vino scorre generoso e l’allegria lo segue, mentre le ombre si allungano nel pomeriggio e la luce si restringe. L’eco della festa disturba una poiana che si alza in volo protestando col suo verso stridulo, andrà a cacciare più lontano. Il cane, ligio al suo dovere, la insegue, ma poi ritorna e reclama la sua parte. Mentre le donne iniziano a sparecchiare e servono torte col nocino, il suono allegro della fisarmonica si unisce ai cori improvvisati e i giovanotti, ringalluzziti dal buon bere, nel calar del sole si trasformano in ballerini. Poi scende la sera e si accendono i lumi. Sotto la pergola, nell’aria rinfrescata, si diffonde suadente il profumo delle rose senza nome portate in dote da mia madre, protese nel loro ultimo sforzo di fioritura prima del lungo riposo invernale. Ne colgo alcune, sono vermiglie e vellutate e ne faccio dono a Lei. Lo sguardo le si illumina, ne assapora il profumo e mi sorride, prima di fuggire vergognosa verso le amiche.
Tutto in me è un miscuglio di emozioni e nel tentativo di mascherarle a chi mi osserva, lo sguardo mi corre all’orizzonte, là dove finisce il vigneto un ultimo raggio di sole colpisce una macchia di pioppi, aceri e querce accendendo di fuoco i caldi colori ed io, per la prima volta, avverto la consapevolezza del mio esistere: assomiglia, credo, alla felicità!
La pioggia crudele mi riporta al mio tempo. Una voce mi chiama ma non voglio sentirla, non ancora! Dirigo i miei passi, resi incerti dal peso degli anni, verso la pergola di rose. Pare un groviglio ma la sua bellezza è immutata. Ne colgo una, il suo profumo è intenso e penetrante e rialzo lo sguardo sulla mia memoria… ma la voce richiama e mi impongo di ascoltare. Rientro e mio nipote Giancarlo mi rimprovera:” Il tempo stringe e sei tutto bagnato”. poi si scusa. Ha ragione, lo capisco, anche lui ha i suoi impegni. Gli chiedo di regalarmi ancora mezz’ora. Sul tavolo c’è l’ultima bottiglia di vino, del mio vino. Ne verso un bicchiere, è corposo, profumato, di un bel rosso rubino. Mentre lo sorseggio stringo nell’altra mano la rosa. Il ragazzo è impaziente, la sua morosa lo sta aspettando e deve ancora riaccompagnarmi alla casa di riposo.
Chiudo gli occhi, i teli polverosi che coprono i mobili da anni scompaiono e la casa d’incanto si riempie di un grande vociare, i bambini più piccoli strillano, le madri li sgridano, le donne sono intente a cucinare. Sono appena rientrato dalla città e la nonna, agitata, mi ordina di affettare il pane, gli altri uomini stanno per rientrare e la tavola non è ancora apparecchiata! Mia moglie, intenta al lavaggio dell’insalata, mi sorride maliziosa: siamo sposati da quindici giorni!
Poi il tempo e i ricordi prendono la mano e scorrono troppo in fretta: nonna, genitori, zii, cugini… ognuno segue il proprio destino, rimaniamo solo noi al casale: io, mia moglie e i miei figli… ma non è un perdere gli affetti, è il tramandarne di nuovi!
Sorrido. In fin dei conti non mi posso lamentare: ho avuto una buona vita!
A fatica mi alzo, prendo la rosa e bevo l’ultimo sorso di vino. Fuori ignoro il cartello che da anni mette in vendita la casa. Volgo un ultimo sguardo alla mia terra, ai filari abbandonati e ai ricordi di una vita.
“ Grazie Giancarlo, adesso possiamo andare!”
Non gli dico che improvvisamente mi sento molto stanco; non gli dico che è l’ultima volta che ci vediamo; non gli dico che domani … è un buon giorno per morire!
Mariachi serenade, Maurice Jarre. Dal film "Il profumo del mosto selvatico"
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1 commento:
Nice dish
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