martedì 18 novembre 2008

l'autunno della mia gioventù


Foto tratta da Flickr.




Arianna e Selena Mannella. Un altro bel racconto, scritto a quattro mani, per "I giorni del vino e delle rose".

Arianna e Selena sono nate nel 1975, risiedono a Curino Biella.
Vincitrici del VI Premio Internazionale Albatros "Le passioni" 2008, grazie al quale hanno ottenuto la pubblicazione della loro opera prima, un romanzo, hanno partecipato a numerosi concorsi: i loro racconti sono stati pubblicati nelle antologie dei premi "Animo animale" di Pordenone, "Emozioni in bianco e nero" di Foggia, "Un anno di historica" di Cesena, "Premio gustoso" di Modena, "Tutti i colori dei bambini" di Tolentino, "Il risveglio delle i-dee" di Catania, "I veli della luna" di Catania (terzo posto). Arianna e Selena scrivono anche poesie, tre delle quali pubblicate nell'antologia del premio "Poesia in notes" di Imperia. Menzioni di merito per i loro testi letterari al concorso per inediti "San Benedetto del Tronto" e "Poesia e narrativa, città di S. Gillio" di Torino. Al "Concorso Surrentum" di Sorrento si sono classificate prime nella sezione giallo-noir. Targa di merito anche per la sezione racconto breve del XXV Premio internazionale di poesia e narrativa "Città Cava de' Tirreni". Un loro racconto è pubblicato nell'antologia del "Concorso Internazionale Profumo d'antan" di Torino.


Racconto

" L'AUTUNNO DELLA MIA GIOVENTU' "

di Arianna e Selena Mannella



Era l’autunno del 1942. Mio padre all’epoca era generale dell’esercito. Per quell’inizio di stagione aveva organizzato nel nostro casolare una festa, nella quale avrebbe invitato i membri più importanti delle forze dell’ordine maggiore.
Mia madre era sempre stata una donna semplice, lo aveva sposato quando la sua passione per l’esercito non era ancora diventata un vero e proprio lavoro. L’idillio del loro matrimonio era però durato poco. La vita da militare irrigidì presto mio padre, arrivando a cambiargli persino il tono della voce.
Erano gli anni della grande guerra, gli anni in cui il cielo era oscurato da aerei che avrebbero sparso solo morte. Erano anni in cui la povera gente moriva ingiustamente sotto i colpi dell’artiglieria. Gli anni in cui i nostri soldati morivano al fronte per combattere una guerra nella quale forse, neanche credevano. Noi, nonostante tutto, continuavamo a vivere bene, c’era una camionetta militare che ci riforniva di viveri una volta a settimana. I servitori che avevano sempre fatto parte della nostra famiglia, pulivano e tenevano in ordine il nostro casale.
La festa che mio padre organizzò quel giorno doveva essere dedicata ai signori della guerra ed io e mia madre, non ne eravamo per niente felici. Tuttavia non avevamo alcuna voce a riguardo, la donna all’epoca veniva segregata nei suoi ruoli di moglie o di amante. Di colei che accompagnava il marito con cordiali sorrisi e lasciava la stanza quando vi erano discussioni importanti.
Si erano passati giorni e giorni ad organizzare quella festa, si erano lustrate tutte le argenterie, si erano arieggiate le stanze chiuse e si era allestita una grande tavola sotto il pergolato, che nel giorno stabilito, sarebbe stata imbandita da prelibatezze da stuzzicare anche i palati più fini..
Quelli erano anche giorni di vendemmia, giorni in cui il casale veniva lasciato alle prime luci dell’alba e ripopolato solo a tarda sera.
Vi erano tante braccia a fare quel duro lavoro, ogni grappolo veniva strappato con dedizione dalla madre pianta, adagiato in piccole ceste, svuotate poi in grandi contenitori per essere trasportati su di un carro trainato da un mulo, fino al casale. Erano gli anni in cui il duro lavoro veniva lasciato alla forza delle braccia, non si conoscevano ancora le comodità che avrebbero regalato i macchinari agricoli da lì a qualche anno.
Dopo il grande raccolto, entravamo in scena anche noi donne. Con le nostre lunghe vesti tirate appena un po,’ su affondavamo i piedi sui quei grappoli dal colore nero viola.
Fu proprio in quei giorni di lavoro che lo conobbi.
Era arrivato con il treno su una delle poche linee ferroviarie che la guerra non aveva ancora reso inagibile. Era il nipote di Gianna, la donna che si era presa cura di me fin da piccola. Lo aveva raccomandato alla mia famiglia come factotum, c’era sempre bisogno di manodopera nel nostro casale, soprattutto in quel periodo dell’anno. I suoi occhi scuri mi ricordavano i profili delle montagne all’imbrunire. Il suo viso abbronzato gli conferiva un aspetto sano, forte, i suoi gesti erano sicuri, agili. Il suo corpo robusto nascondeva una piccola fragilità nel suo cuore. Gianna ci spiegò che era affetto da una particolare malattia che gli rendeva il cuore fragile come petali di rosa, proprio così disse…petali di rosa.
Mia madre si mise una mano sulla bocca a quelle parole e da quel momento in poi, ebbe sempre cura nell’impartirgli le faccende meno pesanti.
Il vino che avevamo sapientemente raccolto, spremuto e filtrato l’anno prima, fu servito al pranzo in onore agli ospiti di mio padre. I calici venivano alzati come bandiere d’orgoglio sulla nostra tavola. Il suo colore all’interno di quei cristalli rifletteva il colore della terra, il senso delle nostre tradizioni. La fatica ed il sudore di tante persone.
Mio padre a capotavola, portava la sua divisa come di chi sente di aver fatto la scelta giusta per la sua vita. Io e mia madre gli sedevamo accanto, quasi indifferenti delle autorità che accompagnavano la nostra tavola.
Non appena mi fu possibile mi alzai con un pretesto e andai da lui.
Mangiava seduto ad un tavolo nella vecchia cucina. Il rumore delle stoviglie che cozzavano uno contro l’altra mi costrinse ad avvicinarmi di più a lui. C’era chi riempiva vassoi d’argento con fagiano arrosto, chi versava altro vino nei boccali di cristallo, chi sformava pasticci dal forno, chi lavava piatti. Mangiavano a turno per non lasciare scoperto il servizio al nostro tavolo. Gli dissi che era un peccato che non assaggiasse il frutto della nostra fatica. Così mi feci accompagnare in cantina, sotto gli sguardi indagatori della servitù e gli versai da una botte, un po’ di quel vino rosso vendemmiato l’anno prima.
Non mi è permesso bere, mi disse, con gli occhi spaventati. Gli diedi un bacio veloce sulla bocca e gli dissi di non preoccuparsi. Assaporò quel nettare come se lo facesse per la prima volta. Con lui mi sentivo libera di essere me stessa. Con lui non dovevo salvare le apparenze o essere all’altezza della figlia di un generale. Fu per questo che me ne innamorai.
Il pranzo di quel giorno fu interminabile, quando tutti gli ospiti si congedarono, la luna aveva già fatto il suo ingresso nel cielo. Le lampade furono accese e le finestre si illuminarono come fari nella notte. Sentii dire da alcuni militari, che in alcune zone le luci erano proibite per evitare attacchi da parte dell’artiglieria. Pensai a come era ingiusta quella vita che arrivava a toglierti qualunque cosa e a quanto quella guerra, fosse iniqua e sbagliata.
Dopo aver dato la buona notte a mia madre, salii quelle scale di pietra che conoscevo bene ma che dopo il vino, mi sembravano meno familiari. Quando quella notte aprì la porta della mia camera da letto, mi investì un forte profumo. Accesi la lampada ad olio sul comodino, chissà perché il mio cuore iniziò a battere forte, forse dentro di me sapevo…
Il letto era cosparso di petali di rosa. Erano rosse come il mio colore preferito, soffici come velluto, profumate come un’essenza rara. Pensai che in quel giorno tutto era stato perfetto, prima il vino, poi il suo bacio e ora le rose.
Sentì aprire la porta, mi voltai dicendogli che non mi era permesso, lui rispose che sarebbe stato un peccato non assaggiare il frutto di tanta passione, così assaporai il suo dolce profumo per la prima volta.
Il giorno dopo, mi alzai senza provare il minimo rimorso. Affacciandomi alla grande finestra che dava sul giardino, lo vidi lavorare con meticolosità su quelle rose che amava tanto. Il sole ancora caldo mi investì il viso anche se l’aria fresca stava già preannunciando l’arrivo dell’inverno. Mi sorrise e mi venne incontro dicendomi, questa è per te. Non era sconveniente agli occhi degli altri, stava curando quelle rose proprio perché potessimo apprezzarne la loro bellezza. Presi la rosa come se avessi preso tra le mani il suo fragile cuore.
Quell’anno, malgrado la disperazione e il dolore che colpiva la nostra nazione, conobbi la felicità. Fu un anno importante per me quello. Imparai come avveniva la vendemmia, imparai ad accettare l’orgoglio di mio padre ad indossare quella divisa e conobbi l’amore.
Sono trascorsi tanti anni da allora, anni in cui il paese ha avuto tempo per risollevarsi, anni in cui le macerie sono state sostituite da alti palazzi, anni che mi hanno dato la possibilità di scegliere un marito e avere dei figli. Ma quando ripenso a lui sento ancora un nodo alla gola. Il suo cuore un giorno ha smesso di battere e qualcosa si è rotto anche dentro di me. Mi ha lasciato un grande vuoto dentro che neppure le persone che ho avuto accanto hanno saputo colmare. A volte mi sembra di sentire ancora il profumo di quell’autunno, il sapore del vino tra le sue labbra. Rivedo ancora quegli occhi scuri come il profilo delle montagne all’imbrunire e quel cuore fragile come un bocciolo di rosa.
“Quante ne vuole signora di queste rose?”
“Me le dia tutte!”
“E’ un' occasione speciale allora!”
“Ricordare è sempre una cosa speciale…”


Vinicio Capossela, Con una rosa

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