giovedì 4 dicembre 2008

E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti...



« Non so se tra roccie il tuo pallido/Viso m’apparve, o sorriso/Di lontananze ignote/Fosti, la china eburnea/Fronte fulgente o giovine/Suora de la Gioconda/O delle primavere Spente, per i tuoi mitici pallori/O Regina o Regina adolescente:/Ma per il tuo ignoto poema/Di voluttà e di dolore/Musica fanciulla esangue,/Segnato di linea di sangue/Nel cerchio delle labbra sinuose,/Regina de la melodia:/Ma per il vergine capo/Reclino, io poeta notturno/Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,/Io per il tuo dolce mistero Io per il tuo divenir taciturno./ Non so se la fiamma pallida/ Fu dei capelli il vivente Segno del suo pallore,/Non so se fu un dolce vapore,/Dolce sul mio dolore, Sorriso di un volto notturno:/Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti/E l’immobilità dei firmamenti/E i gonfii rivi che vanno piangenti/E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti/E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti/E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera. »

Dino Campana, La chimera, da Canti Orfici


Di Paolo Pianigiani, caro amico e prezioso suggeritore di generose suggestioni, condivido l'amore per Dino Campana. E CB.

"L'ho mancato per un pelo un sacco di volte, e alla fine ci sono riuscito a trovarmi una poltrona, in un teatro, con davanti lui. A Napoli, all'Augusteo. Scena buia, solo un leggio. Lui, lì, con una fascia sulla fronte alla McEnroe, e dei segni di cerone bianco sotto gli occhi. Un microfono davanti alla bocca, e una luce addosso. Cinquanta minuti, non di più. Non so gli altri: ma io me li ricorderò finché campo.

Non è che si possa scrivere quel che ho sentito. Né cosa, precisamente, lui faccia con la sua voce e quelle parole non sue. Dire che legge è ridicolo. Lui diventa quelle parole, e quelle non sono più parole, ma voce, e suono che accade diventa Ciò-che-accade, e dunque tutto, e il resto non è più niente. Chiaro come il regolamento del pallone elastico. Riproviamo.

Quando sono uscito non avrei saputo dire cosa quei testi dicevano. Il fatto è che nell'istante in cui Carmelo Bene pronuncia un parola, in quell'istante, tu sai cosa vuol dire: un istante dopo non lo sai più. Così il significato del testo è una cosa che percepisci, si, ma nella forma aerea di una sparizione. senti il frullare delle ali, ma l'uccello non lo vedi: volato via. così, di continuo, ossessivamente, ad ogni parola. E allora non so gli altri, ma io ho capito quel che non avevo mai capito, e cioè che il senso, nella poesia, è un'apparizione che scompare, e che se alla fine tu sai volgere in prosa una poesia allora hai sbagliato tutto, e, a dirla tutta, la poesia esiste solo quando diventa suono, e dunque quando la pronunci a voce alta, perché se la leggi solo con gli occhi non è nulla, è prosa un po' vaga che va a capo prima della fine della riga ed è scritta bene, ma poesia non è, è un'altra cosa..."
Alessandro Baricco


Carmelo Bene e lo scrivere

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