martedì 13 gennaio 2009

un'ottima annata


Guido De Vidi, Vietnam anno ‘0′


Continua la pubblicazione, su DiVINando, di tutti i racconti del concorso letterario di Villa Petriolo "I giorni del vino e delle rose".

Oggi è il turno di Massimo Martinelli, autore del racconto "Un'ottima annata", così attuale, purtroppo, di questi tempi. Grazie a Massimo ed un augurio di annate migliori per il futuro di tutti...


Massimo Martinelli
è nato nel 1965 a Firenze e risiede nel Comune di Capraia e Limite (FI).
Ha pubblicato racconti su riviste letterarie e tre libri, tra cui uno per la casa editrice Ibiskos. Insieme ad amici, Massimo prepara e porta in giro spettacoli di teatro e reading di poesia e prosa, sia di testi di propria creazione che di altri autori. Tra gli ultimi lavori, uno spettacolo sull'opera di L. F. Celine e di Henry Miller e uno su Pier Paolo Pasolini. Il gruppo di Massimo realizza anche video poesia.



Racconto

"UN'OTTIMA ANNATA"

di Massimo Martinelli



Mi chiamo Tuyen Do e sono nata nella città di Huè. Huè si trova in Vietnam, in una regione stretta fra le montagne della catena Annamita e il mare. Non lo dico io, ma Huè è la più bella città del Vietnam e una delle più belle del mondo. In verità io non so come sia adesso, dopo che è stata totalmente ricostruita, se sia cambiata molto da come la ricordo oppure no. Ma allora, quando ero una bambina di undici anni, prima che venisse distrutta dalla guerra, allora era una città meravigliosa.
Dalla finestra della mia camera potevo vedere le pendici dei monti coperte di pini salire fino al cielo e i campi di lillà stendersi ai lati del Fiume dei Profumi. Oltre gli ampi viali, oltre le case a due piani, e il mercato, si alzavano le mura della Cittadella, con le grandi porte laccate di rosso. All’interno di essa, protetta da altri bastioni rivestiti di legno decorato, c’era la Città Proibita con il Palazzo dell’Imperatore e gli edifici dei dignitari. Ne vedevo i tetti porpora e oro che parevano sorretti dal vento, come immense vele calme.
Avevo undici anni e ricordo la pioggia. Pioveva da una settimana e le strade fuori della Cittadella, erano fango. Continuò a piovere anche quando dalle colline partirono i primi colpi di mortaio. Ricordo i colpi e le grida e i lampi e le truppe governative che sotto la pioggia si ritiravano abbandonando la città. I nord vietnamiti e i vietcong presero la città e distrussero i ponti sul Fiume dei Profumi. Nei giorni successivi squadre di uomini armati percorsero le strade con liste di nomi in mano. Continuò a piovere, ma con meno intensità e il giorno che portarono via i miei genitori e i miei fratelli, la pioggia smise di cadere e il cielo cominciò ad aprirsi.
Poi tornarono gli americani e i soldati dell’ARNV, e gli Skyraiders ( è scritto così su questo libro, io allora non lo sapevo) cominciarono a bombardare a bassa quota le postazioni vietcong e anche dal mare, dalle navi al largo, sparavano sulla città. Dopo venti giorni di combattimenti la città venne riconquistata, ma a dire il vero ne restava ben poco. I marines della nona brigata ( così è scritto…), dopo avere combattuto casa per casa, penetrarono in quel che restava del Palazzo Imperiale, dove si era asserragliata la retroguardia del vietcong. La città, ci dissero con gli altoparlanti, era libera.
Non rividi più la mia famiglia. E non vidi la città ricostruita, il Vietnam riunificato, la fuga degli americani nel ‘75. Non vidi niente di tutto questo o meglio lo intravidi alla televisione, raccontato in una lingua che avevo cominciato da poco a conoscere. Nel mio nuovo Paese.

Mio padre era un agronomo, uno scienziato. Aveva studiato in Europa e poi era tornato in Italia alla fine degli anni cinquanta. Io avevo quattro anni e lui, pieno di entusiasmo, partì per la
Toscana perché voleva imparare tutto quel che c’era da sapere sulla viticoltura. Voleva diventare un produttore di vino nel suo Paese. Portò con se uno dei miei fratelli. Aveva anche comprato della terra, vicino a Dalat, perché lì, diceva, c’è il clima adatto e la terra assomiglia a quella di Toscana, rossa, calcarea e con presenza d’argilla. Ma le trecento barbatelle, le trecento piantine che portò dall’Italia, non attecchirono. Qualcosa andò storto e non se ne salvò nessuna. Mio fratello intanto era rimasto in Italia, per imparare la lingua e per la vendemmia di quell’anno. Ci scrisse entusiasta di quell’esperienza, della gente, dei luoghi. Aveva imparato a distinguere un vino giovane da uno invecchiato e un vino buono da uno meno buono e se era invecchiato in barrique o in botti normali. Ci scrisse anche delle rose. Delle stupende rose che adornavano il giardino e i vialetti della casa di campagna dove era ospite e che il proprietario aveva piantato anche all’inizio di ogni filare. La vigna era disposta lungo i fianchi della collina e durante la vendemmia, ogni volta che mio fratello arrivava al termine del filare si fermava ad annusare le rose. Scrisse che quel profumo gli ricordava la sua città. Scrisse che la vita dei contadini è come qui da noi. Lavorano dalla mattina alla sera e una volta alla settimana fanno festa e ballano e cantano sul piazzale lastricato davanti alle case. Al posto dei bufali d’acqua ci sono i muli, scrisse. Ogni mulo porta due grosse ceste e lì vengono buttati i raspi carichi d’uva. I cesti pieni vengono rovesciati dentro un carro, che aspetta in cima alla strada...

Nel campo vicino a Dalat mio padre fece rimuovere le piante oramai morte e studiò una nuova disposizione dei filari. Fece analizzare ancora una volta la terra e utilizzo un concime diverso. Poi disse che sarebbe tornato in Italia. Voglio venire con te, gli dissi. La prossima volta, mi disse lui. La prossima volta verrete tutti con me. Lo accompagnammo al porto. Lungo la strada vedemmo una colonna di mezzi dell’esercito ferma sotto il sole. La camionetta di testa era stata centrata da un colpo di mortaio e stava bruciando. A terra c’erano i corpi di due militari. Mio padre rallentò per via di quei corpi sulla carreggiata. Un ufficiale stava parlando alla radio. Accanto a lui c’era un occidentale in maglietta bianca e pantaloni militari con una pistola in pugno. I soldati fissavano la boscaglia con le armi spianate e gli occhi pieni di paura. Passammo. Mi voltai per guardare e uno dei soldati alzò la mano e mi sorrise. Un profumo di rose entrò nell’auto, insieme alla polvere e all’aria calda e pesante.

Fu al culmine della stagione secca del 1966, mentre le truppe del Nord Vietnam combattevano contro la Prima Divisione aeromobile americana negli altipiani centrali( così è scritto in questo libro) e i vietcong tendevano imboscate ai marines e ai governativi nelle risaie del delta ( è scritto anche questo), fu in quella giornata calda ma non afosa, che camminando fra i filari carichi di grappoli scuri, mio padre disse che era arrivato il tempo della vendemmia. Lo ricordo perfettamente perchè avevo nove anni e camminavo dietro di lui, nello stretto spazio fra un filare e l’altro, attenta a non inciampare nelle zolle dure come sassi e lui, mio padre, si fermò e mise il palmo della mano sotto uno dei grappoli più grossi, come a saggiarne il peso ed in effetti lo sollevò un poco e lo guardò attraverso il fascio di luce che bucava le foglie verdissime e ne prese, dei tanti, un acino e si abbassò per portare la sua testa all’altezza della mia testa e fra noi mise quell’acino, uno dei milioni di acini che erano cresciuti grazie alla sua perseveranza in quel lembo di terra vicino a Dalat; lo mise dunque fra noi in modo che lo vedessimo e al tempo stesso vedessimo l’uno gli occhi dell’altra... e lo premette fra le dita così che ne vennero fuori il succo e la polpa, del colore dell’ambra, piena di minuscole vene che pulsavano – a me sembrò - sopra la buccia lucida come il dorso di un coleottero. Finalmente. Disse mio padre guardandomi negli occhi.

Due giorni dopo, durante un’operazione di rastrellamento, un caccia bombardiere a reazione, sganciò due fusti di napalm da trecentocinquanta chili l’uno sulla vigna. Vedemmo il fuoco avvolgere tutto in globi rotolanti e l’aria venne risucchiata verso questi globi; dai nostri polmoni venne risucchiata, dalle piante e da ogni cosa vivente là intorno e il sogno di mio padre finì.

Vivo in Toscana. Arrivai qui nell’inverno del 1970, adottata dalla famiglia che per due anni aveva ospitato mio fratello. Erano molto amici di mio padre.
Ai primi di ottobre del 1970 partecipai per la prima volta alla vendemmia. Furono splendide giornate di sole e l’aria era fresca e pulita. Ai primi di ottobre, con un paio di forbici rosse che il “ babbo”, come già avevo imparato a chiamarlo, mi aveva insegnato ad usare, tagliai il mio primo raspo. Prima di gettarlo nel cesto lo osservai a lungo e ne presi un acino che strizzai fra l’indice ed il pollice. C’era un buon odore di rose e di mosto e il “ babbo” mi disse nella mia lingua che sarebbe stata un’ottima annata. Un’ ottima annata Tuyen Do...


Hamburger Hill: collina 937 (1987) di John Irvin

Nessun commento: