lunedì 27 dicembre 2010
“Intriganti riti tra le tenebre del buio” di Alessia e Michela Orlando per La gaia mensa
“Intriganti riti tra le tenebre del buio” è un racconto scritto a quattro mani dalle gemelle Alessia e Michela Orlando per il nostro concorso letterario 2010 “La gaia mensa”.
Alessia e Michela sono nate a Salerno e risiedono a Fisciano (SA).
“Trasferite a Bologna per la laurea Magistrale, ci occupiamo di fotografia, scrittura in genere, teatro, sceneggiatura per il teatro e per i fumetti. Attualmente, per questo solo anno scolastico, insegniamo Italiano, la prima ad Ajaccio, la seconda a Grenoble”.
Aggiungo che conducono con originalità e grande costanza il blog Napolimisteriosa, che invitiamo tutti gli amanti dell’arte a visitare quanto prima al link: http://napolimisteriosa-autori.blogspot.com
E’ con piacere, inoltre, che annuncio la mia partecipazione in qualità di giurata al loro bel concorso "Po & sIA: paure e altri umani sentimenti in forme espressive d'arte". QUI tutte le informazioni. Partecipate, amici di DiVINando: il concorso, gratuito, scade il 21 marzo 2011!
Racconto “Intriganti riti tra le tenebre del buio” di Alessia e Michela Orlando
Prologo. 1960. 28 dicembre. Ore 24.
Leonardo.
Nascosti tra alberi monumentali, cespugli, roveti, interclusi fra un lembo di acqua, straripata con violenza e improvvisa fierezza, e una collina pronta per la futura semina, occhi indiscreti si aggirano intorno a una casa colonica.
La luna, invece, è nascosta da una nuvolaglia nera.
In casa l’ombra di un groviglio di corpi umani si staglia sulla parete bianca scalcinata. Le forme cupe si scambiano qualcosa di arrotondato o triangolare. Tra profili di polpacci, cosce, glutei, grembi, seni, teste, criniere cotonate e teste azzimate, ogni tanto emerge la lama di qualche coltellaccio. Quei volumi, ingigantiti dalle ombre proiettate da una luce azzurrognola, sembrano voler unificarsi.
Dall’esterno il vento sibila attraversando le fessure di una finestra macilenta. La porta in legno massiccio è socchiusa. Una mano delicata la fa scorrere di poco sui cardini, causando un rumore sordo. Poi due mani imprimono una spinta violenta; si spalanca con un sinistro stridore. Un minuscolo corpo si acquatta nell’angolo più buio. Qualcun altro scende, sbarra la porta, risale di corsa.
Leonardo sbotta in uno stizzito: Finalmente!
Si pulisce le ginocchia nude sporche di polvere e ragnatele; segue la persona inghiottita dal buio. Sale contando i gradini. Al dieci è in cima, su un ballatoio che si perde nel buio in due direzioni. Qualche brivido l’assale. Individua i due corridoi e s’incammina a tentoni, guidato da un sommesso confabulare.
Si china verso il buco arrugginito della serratura di una porta segnalata da una fioca luce. Vede poco, ma è certo che sua madre sia lì, curva, con i capelli raccolti a crocchia dietro la nuca. La mano stringe un coltello dalla parte del manico; infila la punta dentro qualcosa di sferico, di un indeciso color pastello. Intorno a lei altri lugubri volti le fanno da allucinante corona. Qualcuno applaude. L’ultima cosa che vede è un dito di sua madre: sfiora una fetta di formaggio. Altri aprono barattoli di composta. Si gira mentre il volto della donna, segnato dal sorriso, è chiaramente gaudente. Lingue di luce lo striano diabolicamente mentre apre la bocca.
Fugge via spaventato, come fosse nel mezzo di un sabba, tra streghe e ombre grifagne. Scende i gradini a due a due e si allontana dal pericolo sbattendo la porta in fondo alla scala. Scompare dietro una serie di alberi con la sensazione di avere fame.
***
Firenze. 14 giugno 2009. Ore 24-24 giugno.
Cristina e le altre.
Otto ragazze percorrono in rapida successione piazza San Marco. A distanza di due minuti una dall’altra passano sotto la statua bronzea di Matteo Fanti. Il rumore dei passi si perde nella notte.
Indossano tute ginniche e scarpe da corsa.
Poco dopo sono in via Battisti, sotto l’intonaco rosso del Rettorato dell’Università. Ognuna salta a bordo di una Vespa color rosso acceso. Si allontanano verso la stessa direzione.
È notte fonda. Le Vespe sono parcheggiate una accanto all’altra, in uno spiazzo tra quattro castagni. Otto ragazzi confabulano intorno a un falò. Poco lontano un mucchio di tute da ginnastica e otto paia di scarpe gioca con i raggi lunari che compaiono e scompaiono tra le foglie. Una cristallina voce femminile si sente chiaramente: -Ne ho raccolto novantanove. Un’altra le fa eco: -E che cavolo, Silvia, sei la solita esagerata. Io sessantasei. Ines, tu?
-Quarantuno.
I ragazzi si dividono, ridacchiando, con circospezione.
La luna ogni tanto illumina nudità femminili.
Un’altra voce rompe il silenzio: -Giorgia, dove sono i ragazzi? Non li vedo! L’altra sposta un ramo e la cerca. Il suo seno emerge dal fogliame, in piena luce, con i capezzoli turgidi; la forma a pera spinge verso l’alto: -Credevi se ne sarebbero stati buoni buoni a sparare fesserie, in nostra attesa? La carne è carne amica mia.
In quel momento qualcosa le sfiora la schiena.
La barba rada di Franco transita sul suo corpo e giunge alla nuca. Anch’egli è nudo. Si stringe a quel giovane corpo palpitante. Posa le labbra su una spalla; la ragazza si gira lentamente.
***
28 dicembre 2009. Ore 21.
Il gastronauta.
Nella campagna a nord dell’Arno, lontano dalla Costa degli Etruschi, in un’ampia stanza con un largo e lungo tavolo in noce, i preparativi fervono. Qualcuno pensa che sarà una cena memorabile. Altri affettano al coltello prosciutti di Cinta Senese e pane cotto al forno a legna.
Leonardo, dall’alto del suo metro e novanta, scruta i crani dei commensali; si sfiora la barba bianca. Sembra stiano tutti per dir qualcosa, quando va via la luce. Restano in religioso silenzio, immobili, aspettando che la luce ritorni, per risentire la voce stentorea di Leo e mangiare i prodotti tipici di quella terra che definisce santa; per finire sorseggiando l’ottimo nocino della sua riserva: dieci anni di invecchiamento.
Invece no.
La sua voce pastosa giunge dal buio assoluto: -Questo è un segno, l’occasione perfetta per trasgredire. Potrà sembrare irrituale, invece non è un sacrilegio ciò che suggerirò. Non fate gesti inconsulti. Anche se è buio, chiudete gli occhi. Come avrete notato, nel solito bicchierino è stata versata una esigua quantità di nettare. È alla vostra destra, accanto al Chianti. Muovete lentamente la mano. Sapete cosa fare. Bevete.
Tredici bocche si avvicinano all’orlo del cristallo; gocce preziose di liquido denso e profumato si avvicinano al labbro inferiore di ognuno. Travalicano la soglia di carne sensibile e lussuriosa; giungono alle punte delle lingue, liberano essenze magiche, enfatizzate da sole, luce, caldo, fresco, buio e dall’alcool come da altre essenze segrete, nonché dal tempo.
Lasciano che il liquido percorra i palati, che i profumi si mischino all’aria vorticosamente lasciata entrare, che scenda lentamente nel profondo delle anime.
La luce torna sui volti estatici. Nessuno apre gli occhi.
Leo rompe il silenzio: -Fate bene. Lasciamo che il paradiso non si allontani. Questa è cultura. Beviamo il territorio, la storia, le radici, le tradizioni, la geografia, i venti, i cieli, il sentire collettivo, i simboli, i codici, il dialetto. Qualcuno, in un convegno mi ha chiesto: Maestro Gastronauta, voi come lo servite? Ho dovuto spiegare: Gastronauta non è il mio cognome; quel neologismo appartiene a Davide Paolini.
Ho proseguito: Amiamo le cose semplici: lo serviamo liscio, a temperatura ambiente, dopo i pasti. Però non mancano i trasgressivi che lo servono con ghiaccio in estate o bollente in inverno. I ristoranti lo offrono sul gelato, che, avvolto in un felpato sortilegio, diviene un elegante dessert. Vi consiglio di provarlo sulla panna cotta.
Adesso devo battermi il petto e infliggermi la penitenza per la bugia; dovrò poi spedire una mail a chi mi ha invitato a quel convegno, pregandoli di girarla a tutti. Dovranno sapere che noi lo beviamo anche prima di cena! Buon appetito, e ricordate che si mangia con la testa e non con la pancia. Ah, vi anticipo che dopo mangerete una pietanza che ho scoperto in La cucina impudica, Le ricette segrete di una donna di mondo rivelate a chi intenda diventarlo, la cui prefazione fu scritta dal nostro caro Luigi Veronelli: patate con panna e bottarga, amate dalla puttana che scrisse il libro, dal corteggiatore, giornalista e scrittore M.Sailland che la svelò, da Casanova che nelle Memorie narra di un albanese a Venezia che lo rese felice con una dozzina di bottarghe e due libbre di tabacco turco. Occorre lavare le patate, lessarle, scolarle al dente. Prima che raffreddino vanno pelate e tagliate a fette spesse. Si mettono in una casseruola con una noce di burro, sale, pepe bianco macinato al momento, un cucchiaino di noce moscata; coprirle a filo con panna liquida fresca; cuocere a fuoco dolce. Ridotto il fondo di cottura, fuori fuoco, si aggiunga un bicchiere di panna e cinquanta grammi di bottarga per ogni chilo, affettata con un affetta-tartufi. Si aggiusti di sale e si serva in una legumiera calda.
Adesso è l’ora di sbracarsi e applaudire.
Poi potrete ruttare e scoreggiare felici.
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