domenica 6 febbraio 2011

“Ricordi” di Marco Donati per LA GAIA MENSA


Foto di Alena Fialova'


Il racconto di un giovane autore de La gaia mensa, quarto concorso letterario di Villa Petriolo, in questa domenica di febbraio. Buona lettura!

Marco Donati, nato a Castiglion Fiorentino nel 1990 ed abitante ad Arezzo, è uno studente universitario. Ha partecipato ad incontri e iniziative di carattere letterario/storico/filosofico proposte dalla scuola, a concorsi e riviste letterarie. Alcun suoi lavori (racconti, storie brevi, poesie, haiku) sono reperibili su archivi gratuiti online. Svolge anche attività di fanwriter (scrittore di fan fiction, racconti amatoriali senza scopo di lucro volti ad approfondire storie esistenti ed edite per condividerle con altri appassionati).


Racconto “Ricordi” di Marco Donati

Anche oggi siamo in fila davanti alla mensa universitaria.
Ancora non è neanche mezzogiorno, e la cassa non ha ancora aperto, ma noi siamo in pole position per tuffarci sul cibo per primi. Ho saltato un' ora di lezione per stare ad aspettare qui fuori sotto la pioggia, ma non importa, studierò di più questo pomeriggio, o avrò qualcos’altro da aggiungere all’elenco delle cose che ho lasciato indietro e che dovrei recuperare, ma non avrò la voglia di farlo. Non ho neppure poi tutta questa fame, ho fatto colazione appena due ore fa, ma non importa, in qualsiasi altro momento il cibo avrebbe un sapore peggiore. Non mi ricordo neppure cosa c’era ieri nel menù, ma non importa, l’unico motivo per cui sono qui è la compagnia, e quella me la ricordo, non mi sazia e non la dimentico mai.
Stanno sghignazzando come sempre, come degli stupidi, su chissà quale battuta sconcia che non sono stato ad ascoltare, e, oddio, quanto sono infantili! Ma anche io divento stupido ed infantile in loro presenza. E’ chiamata “cattiva influenza”, ma mi va bene così.
- Cazzo, ma quando apre ‘sto posto! -
Pensare che se tanto dovevo saltare la lezione potevo starmene a letto al calduccio ancora un po’, invece di scappare di casa di corsa. Adesso me ne starei bello imbacuccato nel mio maglione pesante, invece che prendere il freddo sotto questa giacchetta fradicia, grazie al mio sempre efficiente ombrello rotto. Avrei avuto anche il pranzo pronto e servito sulla tavola imbandita senza il minimo sforzo, ma appena mi chiamano, corro. In effetti non è molto maturo, scodinzolare in questo modo come un cagnolino, assecondare ogni loro ripicca e fare sempre quello che vogliono. Ma, da qualche parte, devo volerlo anch’io, altrimenti non lo accetterei così di buon grado. Forse è vero che non ho una personalità, di certo non ho dovuto sforzarmi a indossare la maschera che vogliono vedere. Forse vedono solo quello che vogliono vedere e vedono solo la parte che voglio mostrare, forse accettano la parte che non ci dovrebbe stare e fanno finta di niente, forse non hanno bisogno di essere spietati per farmi crescere. Di certo, anche quando sono in disparte, in silenzio, da solo, a pensare, lì sento vicini e di certo mi torneranno a cercare. E credo che già avere qualcosa del genere non sia da buttare...
Il problema è togliersela, quella maschera. Quando tutto il resto del mondo mi sembra pesante e ostile, quando fuori dal mio rifugio sicuro mi sembra impossibile non essere giudicati, non essere criticati, non essere frustrati. Però non è neppure vero, perché quando mi rendo conto che anche questo non potrà durare per sempre, mi sento frustrato ugualmente.
Si apre la porta della mensa, e ci indirizziamo nell’ingresso, verso il bancone. Ci litighiamo i vassoi e le posate, come se ci fosse una qualche gara a chi arriva primo. I pensieri negativi si involano, e resta il sorriso. Commentiamo aspramente i cibi e le portate allo stesso modo di tutti i giorni.
- Quel pollo sembra ancora vivo! -
- Su questo pecorino c’è più muffa che sul gorgonzola! -
Prendiamo molto più pane di quanto ce ne serva, giusto perché è gratis e non possiamo farci sfuggire una simile occasione, neanche morissimo di fame.
Tiriamo fuori i soldi, sperando sempre che la cassiera sbagli a farci il resto e ci faccia pagare di meno. Ci sediamo al nostro solito tavolo scolorito, brutto. Familiare. E anche se è rettangolare mi sembra di stare al centro di un cerchio.
Riempio il bicchiere di succo al distributore automatico, fino all’orlo. Assaggio un paio di penne, al ragù di verdure. Fredde, scotte. Dall’altro lato del tavolo si tirano gomitate per i tovaglioli. Soffoco le risate, e la pasta diventa così buona... La fettina di carne si taglia a fatica, per quanto è dura e rinsecchita, e sotto i denti suona come gomma. Qualcuno rovescia sul tavolo qualcosa, che finisce addosso a qualcun‘altro. Per le risate la carne mi va di traverso, ma non esito ad addentarne, avido, un altro boccone. Le crocchette di patate sono bruciate, e quel sapore amaro mi fa pensare che quelle schifezze non sono solo sgradevoli ma pure cancerogene. Per sbaglio - inconsciamente? - verso dell’olio nella Coca-Cola. E le crocchette si tuffano una dopo l’altra nella bocca tra gli scherzi che aggiungono sale, pepe, ketchup, maionese, yogurt e budino all’intruglio scoppiato casualmente. Arrivati alla frutta, i commenti sulle rispettive banane sono la ciliegina sulla torta. Quando sbuca fuori anche la fiaschetta argentata da sotto il cappotto, orribile posto dove stipare quell’inebriante vino rosso, capisco che non ne avrei affatto bisogno, siamo già belli alticci. Ma un bicchiere non farà male, o al massimo non peggio di tutto il resto che in quel banchetto ha già messo a dura prova il mio fegato. Di certo con l’aranciata non posso brindare ad un altro giorno di scazzo totale senza pensieri, sarebbe indecoroso.
Svuoto i rifiuti nel cassonetto e ripongo il vassoio, pensando a dove finirà quel tempo, quei ricordi insieme. Sperando che non finiscano nel cestino insieme a quei resti di uno scialbo impareggiabile pranzo.
Mentre li riaccompagno alla stazione non penso se dovrei star facendo qualcos’altro in quel momento, penso solo a come allungare quel tempo insieme, magari prendendo un gelato o sostando ad un bar. Ma è il momento di lasciarli andare e li lascerò, sapendo di ritrovarli il giorno dopo, stesso posto stessa ora, stesso spirito. Ci sono sempre, sono sempre lì ad aspettarmi, ma spero ci saranno ancora al momento giusto, spero che prenderanno il treno successivo quando ne avrò bisogno. Spero che resteranno anche quando sarà finito il tempo dei pranzi e del cazzeggio.
E di nuovo i pensieri negativi riaffiorano. Aspettando il ritorno dei miei amici a scacciali via ancora una volta.

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