giovedì 8 settembre 2011

Cristina Trinci, secondo premio di "Wine on the road" col racconto NON PER QUESTO SPARISCE




A Cristina Trinci le nostre congratulazioni per aver meritato la medaglia d'argento di “Wine on the road”, quinto concorso letterario di Villa Petriolo.

La parola ai giurati:

L'autrice “ha scelto la strada più difficile (un attacco lirico, l’introspezione e lo sviluppo psicologico prima ancora che una storia vera e propria si delinei), percorrendola però con sapienza fino all’incontro con il coprotagonista (il cameriere). Anche il loro dialogo è felice: efficace ed evocativo”.
(Luca Ragagnin, Enrico Remmert)


Cristina scrive di sé: “Sono nata ad Empoli e vivo a Castelnuovo d’Elsa. Sono laureata in Scienze della Comunicazione e lavoro all’Ufficio Relazioni con il Pubblico del Comune di Montelupo Fiorentino. Alcuni miei racconti sono stati premiati o segnalati in vari concorsi: Parole e Note (Biblioteca di Empoli 2001), I giorni del vino e delle rose (Villa Petriolo 2008), In-chiostro (Biblioteca di Empoli 2010). Ho condotto nel 2010 il programma di approfondimento “LASTRADA”, in onda sull’emittente televisiva Antenna5”.


Racconto “NON PER QUESTO SPARISCE” di Cristina Trinci

È una ferita, questa, che passa dal cuore alla stazione, d’un soffio, senza pensare. Mi passa per le vene, fa del sangue inutile via di fuga, sempre ritorna, comunque vada, lì al cuore. Pompa d’amore, questa stazione, piccoli treni rumorosi i suoi globuli rossi. E io a sospirare nostalgia. Non è la scelta sbagliata o giusta che fa rimpiangere. È quel sentore di un tempo che non c’è, quella strada infinita che si congiunge al cielo in un punto d’illusione. È sospiro quest’attesa. Come andare e venire. Come star qui. Come volere ma poi non voler più. Come avere lacrime represse nelle borse degli occhi, e spingerle giù, giù da dove sono venute, perché non avrebbero senso esposte al vento. Vento che passa tra futuri passeggeri e distratti passanti. Come suonano bene le parole quando si trovano, e chissà quale senso avrebbero le mie per te se adesso mi fermassi a dirtele. Se trovassi di nuovo il tuo cappello eccentrico all’altezza del mio sguardo, chissà se resterei lì, eroica in fronte a te, a dirti ciò che speravo, da tanto tempo, di non dirti più. Restano poche cose di noi in questa città. E la stazione sembra averci già dimenticati. Ma noi eravamo così belli che stando qui ad aspettare mi sembra quasi, ancora, che ci sia nell’aria un residuo del nostro odore. Come fossimo impregnati di un’essenza francese, persistente, che non si lascia svilire dagli anni, dai nuovi fumi e dai vecchi ardori. Resta lì sospesa, ad aspettare come me che qualcuno le dica sì, puoi andartene, è l’ora. Ma l’ora per qualcuno non arriva mai. L’amore così funziona. Si abbarbica ai luoghi e ne diventa parte. Anche l’amore finito. Non perché finisce vuol dire che sparisce.
Tu che guardi al tuo cielo non sapendo che lo sto guardando anch’io. E sono passati secoli da quel medioevo di bellezza che avevamo addosso nei giorni scuciti dei ventenni. Ne avevo tante, di voglie, che proprio non riuscivo a sbarazzarmene. Socchiudo gli occhi di fronte al mio bicchiere. Ci sono lievi incrinature del bordo. Forse mi ferisco lievemente il labbro inferiore. Ma rosso di sangue e rosso di vino si miscelano insieme, e non mi accorgo. Il sapore acerbo di questo vino ligure mi riporta alla terra, sanguigna risorsa dell’uomo, e mi sento lontana da casa.
Aspetta, ti prego, che venga giorno per dirmi che qui non sarà casa mia.
Ti sentivo dire tante cose. E qui, stazione maledetta, tutte sono rimaste le tue parole. E qui devo sentirne l’eco, proprio qui devo aspettare questo treno che ritarda. Vino che si fa strada e quasi brucia. Il cameriere si affaccia al mio tavolo. Ho gli occhi chiusi. Forse l’ho spaventato. Li riapro e mi accorgo che ancora a quella ventenne assomiglio. Ne ho l’effige stampata nel cuore, nel sangue che vibra nel mio bicchiere di vino. Anche lui finisce, lasciando strie violacee nei riflessi di cristallo del calice, ma non per questo sparisce. Mi vive dentro, pulsa insieme al sangue nei percorsi del corpo.
Rassicuro il cameriere con una domanda normale: mi scusi, che vino è questo?
Ha un’espressione di alunno interrogato nel giorno sbagliato. Si rivolge al bancone, chiede affannoso al collega. Poi soddisfatto mi dice: Rossese.
Io dico me ne parli, per piacere. Ma il cameriere indugia, non sa quale vino serve ai clienti veloci di una stazione. Forse non sa che fra le mani ha una bottiglia di vino ormai raro e che presto finirà. Finirà per i vitigni antichi ormai esausti, per la fatica della coltivazione a terrazza, finirà perché ormai surclassato da vini più raffinati. Non per questo sparirà.
Forse il cameriere vorrebbe semplicemente sbrigarsi, ma io lo imploro con gli occhi di non abbandonarmi alle mie fantasie di memoria, di nuovi arrivi e partenze, che mi affollano il pensiero. Dice torno subito. Va ad un altro tavolo, torno a pensare al giorno che vidi per la prima volta questa stazione. Mi sembrò una nuova era, visionaria di futuro, grande città, assetata com’ero di persone da incontrare. Ed ero già lì per lui. E ora in stazione lui mi rincorre con le sue presenze.
Torna il cameriere e dice: allora, si tratta di un Rossese di Dolceacqua, al confine con la Francia, e la coltivazione risale agli antichi greci.
Almeno adesso il cameriere dai capelli biondi, dai pochi anni e dall’accento insicuro, sa cosa mi sta servendo.
Mi sembra che il tempo non passi, il treno non arrivi, l’amore ritorni, il vino si consumi.
Ti piace il vino?
Diventa rosso, ha la pelle sottile e chiara, non può nascondersi.
Sì.
Ho dieci anni più di lui, ma lo trovo interessante e bello.
Puoi fermarti a berlo con me?
No, devo lavorare.
A che ora finisci?
C’è un attimo di silenzio. Belli gli attimi di silenzio. Poi parla.
Fra venti minuti.
Io devo aspettare ancora un’ora il mio treno.
Lui torna a prendere comande e portare boccali di birra. In tutto il locale solo io sto bevendo vino. Eppure non sanno quello che si perdono. Quando bevevamo insieme dalla bottiglia, titubanti per le vie della Città Vecchia, incerti nel camminarci accanto, era ricchezza. Era allora un lambrusco vivace, casuale, che solleticava il palato e stuzzicava il sorriso. E poi giovani vini francesi, nella Provenza interculturale di incontri mediterranei. Solo pochi sorsi condivisi in piazza per un ultimo dell’anno, era di altri la bottiglia, forse un Nero d’Avola, allora non chiamavo i vini per nome. A volte non c’è la storia, solo minuscoli fatti personali che si intersecano per dare ricordi alla gente. Quelle briciole di esistenza adesso mi assalgono, e vorrei respingerle, lo giuro, ma ho bisogno di un aiuto esterno.
Il mio paggio dorato finalmente arriva da me, smesso il suo grembiule da servo, ora appare il cavaliere che è. Si siede. Mi guarda. Ricambio.
Vuoi bere?
Ho avuto paura.
Di cosa?
Eri da sola, con gli occhi chiusi e una sbavatura di sangue sul labbro.
È stato il bicchiere a ferirmi, ma è cosa da niente.
Era triste vedermi così.
Così come?
Come qualcuno che ha subito uno smacco. Nell’impeccabile volto, un graffio lo disturba.
Grazie.
Prende un altro bicchiere e si versa un po’ di Barbera.
Ti piace?
Per me i vini sono tutti uguali, è la compagnia che fa la differenza.
Sei stupido se veramente la pensi così.
Non la penso così.
Cosa studi?
Come fai a sapere che studio?
Non lo so, lo immagino, sembri troppo intellettuale per fare il cameriere.
Una conclusione un po’ affrettata.
Lo so.
La storia del teatro.
Ti piace recitare?
No, mi appassiona la scrittura teatrale. Sono uno spettatore.
E il tuo autore preferito?
Schmitt.
È tedesco?
No, francese. Si chiama Ėric-Emmanuel Schmitt.
E cosa scrive?
Non mi va di dirtelo.
Perché?
Mi ci vorrebbe troppo tempo. E tu non hai tempo. Ho sete.
Non puoi bere e parlare contemporaneamente?
Voglio parlare d’altro.
Di cosa?
Di te.
Che vuol dire?
Tu sei vecchia.
Grazie.
Ma mi attrai.
Perché?
Perché c’è del vino sulla tua camicia bianca. E non te ne sei accorta. Perché sei astratta da tutto. Perché ogni tanto qualcosa che pensi ti fa sembrare vestita di luce. Perché sei amore piovuto in un bicchiere. Perché forse ho già bevuto troppo, ma questo vino è tutto, questo bicchiere, ho voglia di te.
Come puoi parlare così ad una sconosciuta?
Posso, sei tu che mi hai invitato al tuo tavolo.
Hai ragione, ero distratta, ma non pensavo a te, pensavo ad un altro.
Questo “altro” è qui?
In un certo senso sì.
E in un altro senso?
No. Abita qui, ma non ci vediamo da anni.
Perché lo hai lasciato andare via?
Forse perché non era il momento, non è mai stato il momento, per cinque lunghissimi anni. Ci siamo incontrati ma non ci siamo mai trovati. Volevo altro da lui.
E ora?
Ora non ho niente, ma devo resistere dal chiamarlo, dal sentirlo vicino, dall’apprezzare la sua costanza nell’essermi sempre in mente.
Lo vuoi ancora?
No, è solo nostalgia.
Di lui?
Della vita che avevo, ostinata e fragile, tra desideri inespressi e sogni di onnipotenza.
Ora cosa vuoi?
Un ragazzo più giovane, biondo, che ama il teatro.
Tutto qui?
Sì.

Sparisco con lui, il mio viaggio si ferma a Genova, non parto più per la mia meta.
Vivo due volte la stessa vita. Brindando a Genova, quanto stupore.

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