giovedì 24 novembre 2011

“Per Cantine e Galene a Longobucco” di Emidio Parrella per WINE ON THE ROAD



Ancora un racconto per “Wine on the road”, quinto concorso letterario di Villa Petriolo.


Emidio Parrella
è nato a Sedico (BL). Vive a Napoli. Docente nei licei e professore a contratto nella S.I.C.S.I. delle Università di Salerno e Napoli, dove è stato anche Supervisore nei corsi per l'insegnamento. Ha pubblicato sette libri di poesia, di cui si ricorda "Ai Confini della Ragione" per l'editore Rebellato. Ha scritto diversi testi scolastici. Un'autobiografia dal titolo "Machiavelli e Guicciardini". Uno studio sul Belli, pubblicato sulla rivista internazionale "Poeti e poesia" di Pagine editore. Numerose segnalazioni a premi letterari.


Racconto “Per Cantine e Galene a Longobucco” di Emidio Parrella


Di frequente trascorro le vacanze estive in un paese della Calabria tra Praja a Mare e Scalea: S. Nicola Arcella.
Il tempo estivo scorre lieve tra incontri con amici e bagni di mare.
Nei giorni uguali a volte la noia prende il sopravvento: allora si sveglia il desiderio di qualcos’altro.
In uno di questi giorni, dopo lunghe settimane di mare e incontri sotto l’ombrellone, decidemmo di recarci a visitare Camigliatello nella Sila e poi addentrarci nella Sila greca: il luogo più interessante che ci era stato indicato era Longobucco: un paese sospeso tra un cuneo di monti sul fiume Trionto.
Dista da Cosenza 62 km.
Longobucco con le sue miniere d’argento fece la fortuna di Sibari. Probabilmente corrisponde all’antica Temesa, citata da Omero nell’Odissea per le miniere d’argento nel fiume Manna.
“A Galanza” in dialetto locale, la galena argentifera era presente nel territorio longobucchese da tempi remoti e fu usata Crotonesi e Romani per la coniazione delle loro monete.
La giornata si presentava stimolante ed interessante: facemmo un giro lungo il sentiero storico-naturalistico “la via delle miniere” osservando le numerose cave del luogo.
Visitammo poi il paese: la Chiesa Matrice del XII secolo con le sue ricchezze barocche del settecento e poi il simbolo di Longobucco: la Torre Campanara chiamata “Pupulu ero Campanaru”: torre di avvistamento contro le invasioni dei Saraceni.
Ormai era mezzogiorno e l’esigenza di fermarsi da qualche parte per mangiare era una necessità.
Ci inoltrammo tra le viuzze alla ricerca di una cantina: la parte antica del paese era ricca di diverse cantine con i nomi in dialetto dei vari proprietari.
Tutte avevano in comune un’aria di ospitalità e serenità.
Una in particolare ci colpì per la sua semplicità e schiettezza di arredamento:
di fronte all’entrata c’era un grande camino rustico con attorno una serie di coppe e quadri che si riferivano a premi ricevuti o riconoscimenti di vario genere.
Due grandi tavoli riempivano la stanza: erano di un legno antico numerose sedie di paglia secondo un vecchio uso contadino erano collocate attorno.
Nell’angolo di fondo della grande stanza c’era un bancone in legno grezzo su cui numerose bottiglie di vino si offrivano ai compratori in tutto il loro splendore.
L’oste, che stava sulla soglia della porta, appena ci vide incerti, capì che eravamo alla ricerca di un luogo dove mangiare. Ci invitò subito ad entrare venendoci incontro: “vi porto subito u scianni chiadù” (bicchiere di vino), sedetevi e mangiate vi tratto bene”.
Seduti a tavola, dopo qualche minuto ci servì un Verbicaro roso che scintillava nel bicchiere e emanava un garbato aroma. Poi ci disse, se volevamo, che ci avrebbe servito degli spaghetti secondo una ricetta locale.
Gli chiesi qual era la sostanza e la caratteristica della ricetta. Mi rispose che era una ricetta semplice, ma gustosa, che era tramandata nel luogo.
In ogni caso molto gradevole.Ci elencò gli ingredienti: "sono spaghetti conditi con olive snocciolate e tagliate a pezzi, con aggiunta di pomodori tagliati a piccole striscie.
Il tutto in prezzemolo trito, aglio e filetti d’acciuga.
Poi far arrosolare a fuoco lento tutti gli ingredienti in un tegame con 5 o 6 cucchiai d’olio d’oliva.
Aggiungere un bicchiere di acqua calda.
La pasta va levata scolata e versata con condimento.
Insaporire il tutto a basso fuoco e servire.
Vedrete, sarà un piatto che gradirete molto e ripeterete per conto vostro", concluse.

Quegli spaghetti così fatti ci incuriosirono e accettammo di mangiarli.
L’esperienza fu ottima, il gusto e il sapore eccezionali anche perché furono ben innaffiati da “u sciannichiadù” di Verbicaro.
Quando lasciammo la cantina eravamo anche un po’ alticci per effetto del vino.Il Verbicaro è un vino forte.
Ci recammo verso il fiume Trionto: le sue acque scintillanti mi fecero pensare a Gioacchino da Fiore, venuto qui per farsi fare dei calici d’argento e insieme ai confratelli di S.Bruno aveva gustato l’eccezionale cucina del luogo, che aveva dato una spinta al
suo estro spirituale verso le sue apocalittiche profezie.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Il racconto nella sua linearità ci offre uno spaccato
veridico e concreto di un territorio poco noto della nostra Italia.Il presente ed il passato storico si fondono
e ci propongono una continuità da ricreare e sviluppare
secondo schemi nuovi in un contesto glocale.

silvia ha detto...

Ci uniamo ai complimenti all'autore!