domenica 27 novembre 2011
WINE ON THE ROAD: il racconto “Cardini del Tempo” di Massimo Marchi
La raccolta di “Wine on the road”, concorso letterario 2011 di Villa Petriolo, si arricchisce giorno per giorno…
Massimo Marchi, nato a Cecina (LI) nel 1962, abita a Cascina (PI).
Nel 1985 pubblica la raccolta “Meteora Cadente” casa ed. Ibiskos (FI); nel 1986 è 3°classif. a “Poeti in Europa” a (MS); nel 1988 è 3°classif. premio “città di Viareggio (LU); nel 1989 vince il premio “Virgilio Mantegna” a (Mantova); nel 2001 si classifica 3° al premio di narrativa “Florio Castellani” (LI), nel 2002 è 4°classif. premio “Santa Teresa”a (LI).
Racconto “Cardini del Tempo” di Massimo Marchi
Stavo cercando affacciato alla finestra di respirare quel pensiero morale forse etico, che è e deve essere rappresentato dalla “Cura e Manutenzione” del mondo, accanto a quella, di conseguenza necessaria, spiritualità raccolta e da raccogliere nella teologia della liberazione, ma il mio olfatto mi ha tradito, ho allora raccolto i miei pensieri, e ho aperto quella madia custode di emozioni, di tensione filosofica cercata e trovata, nel segreto della sostenibilità e della Dea Femmina. Ho scardinato il piccolo lucchetto di quel diario del passato, del mio ieri, nella speranza di cogliere la luce della vita, contenuta all’interno della saggezza dei nonni, che claudica in un domani mai certo, come quel ciottolato vanitoso capace di celare il proprio tempo, dove insisto passi replicati nella precipua ricerca della farmacia dell’anima di Epicuro, di fronte a questo disegno mi fermo e contemplo: È in questo continuo frondare del maestrale, che spingo lo sguardo oltre, diviso nel vedere quelle certezze del mondo, e le incertezze dei ritmi del bosco, dove la corsa del ruscello segna i silenzi indefiniti, e il nido scalmo di un passero inneggia al tempo andato. Un giorno, anzi quel giorno, i profumi del bosco avevano raggiunto un’intensità mai misurata, mai contemplata, capace di inebriare le menti per entrare nel tavoliere delle essenze cedute. È in quella continua e definita corsa e rincorsa di sensazioni che il passo certo di babbo Egidio traccia l’orma del mio percorso alla vita, da seguire avvinghiato al suo indice, capace di contenere quasi tutte le mie dita. Osservo trainato ma estasiato quel sole che stropiccia le foglie, che conficca lance di luce nel terreno parco di tepore, mentre è la felce gentile che si prende l’impegno di cullare la mia gioia, profondamente ricompresa in quei silenzi, in quei richiami talvolta striduli ma vivi e intensi, in cui il babbo, indica il sorgere di una nuova vita, il compendio per una nuova lettura della natura. Nell’indeciso passo verso la somma del pendio mi volgo nuovamente per raccogliere l’abbeccedario illustrato di quel concerto di marginalità in cui il babbo ticchetta i ritmi da scansionare, e la mia anima si tende per raccoglierne i germogli da custodire gelosamente. Le scarpette lasciano tracce soffici, gentili, nel letto di foglie multicolore mai gemelle l’una dell’altra, ed è al confine di quel giaciglio stupendo che si apre una messe di grano immensa in cui, quel vento prima incisivo, attento a indispettire le chiome degli alberi di tiglio, di leccio, dei grandi castagni, ora arriva a smorzarsi riuscendo a farsi brezza morbida e dolce capace con assoluta padronanza, di pettinare con maestria quei biondi capelli di spighe che ricomprendono l’immensità del dire e del vivere. La mia bocca si spalanca oltremodo, i miei occhi traslucidano in quella meraviglia, dove una commistione di profumi di sottobosco si aprono a quell’amidacea essenza, e vicendevolmente si scambiano si confondono ….si fondono, proponendo un’essenza unica, indecifrabile, inimitabile, degna di essere accolta nei nostri polmoni come pozione salvifica. È proprio lì, nel bel mezzo di quelle messi, che sono teneramente invitato ad adagiarmi, vengo accolto, coccolato, e dove ogni colpo di pettine del vento di maestrale contribuisce a confondermi al tempo. Il babbo piega dolcemente un po’ di steli con estrema cura, come una carezza che vuole assumere carattere di profondità, in quel tavolo improvvisato stende quel pane profumato, degno e incontrastato erede di quelle spighe che ci avvolgono, uscito da quella bisaccia piena di storie, di nostalgie, di rimpianti, di gioie, e di dolori. Il pane canta, mentre il babbo con un taglio netto lo schiappa in due parti definite e identiche, facendolo diventare alcova mai dimenticata per quel formaggio sudato che versa lacrime estese, forse mai così tanto amate e capite. Lento, immenso, quasi solenne è il gesto del porgere quel pezzo di pane senza fine, che schiocca, si sgretola, si affanna nel cercare di appagare il languore di quel momento infinito. Tanto infinito quanto i nostri sguardi tumidi di piacere che si scambiano tra un colpo di pettine del maestrale e la carezza puntuale delle spighe di grano sulle mie guance. Il sole si stà stendendo con la dovuta cautela su quelle messi, ridisegnando gli stessi effetti di luce che si fanno rossastri, come quel piccolo “gottino” di liquido rosso che il babbo mi porge, che sprigiona profumi intensi, mai trovati nel mio alfabeto del vivere, mai percepiti o visti scivolare sulla mia rosea lingua. È piccolo il “gottino” che stringo avidamente, tanto piccolo, ma con valori ben oltre il suo limitato volume, il babbo mi vuole “grande” ovvero, capace di mettermi in ginocchio davanti all’altare di bacco, non per trarre sollazzo da quel bere, ma per promettermi “cresciuto”, in quel rapporto algebrico, dove ogni singola goccia di quel nettare capace di colorare le mie labbra, è il succo del mio “nuovo” vivere, in cui la franchezza del vino, sposa il retrogusto dell’esistenza, dove l’intensità dei profumi è la profondità del legame che sta ricomprendendoli l’uno sull’altro, riconoscendone un ruolo unico e condiviso, in una nuova lettura della vita piena zeppa di complicità, di immediate, prossime, eterne confidenze. Potremmo parlare del vino della gioia, di quel nettare appena confezionato nel culto della Dea Madre, considerata l'incarnazione della fertilità e della rigenerazione della vita, in cui si rende evidente la tensione del tempo che scorre, della sostenibilità del vivere e dell’essere vissuto, è buono, è caldo, è il frutto del lavoro di Alviro, il compagno di tante avventure del babbo, che con passione ogni mattina liscia i pampani della vite, che al nascere del sole è accanto ai suoi acini bagnandoli d’amore, è intenso quel vino, come l’accento acuto posto al mio futuro di “omino”, che il babbo e Alviro, hanno voluto ognuno per la sua parte che si disegnasse, per darmi la possibilità di pettinare quelle messi senza fine e comprendere il valore per il mondo, per poter ascoltare i silenzi e le culture espresse dal sottobosco, per poter comporre e accompagnare gli amici, nei solchi regolari delle vigne per ammirare le perle di rugiada sugli acini assetati. Il babbo mi invita ad alzarmi, i miei occhi sfiorano l’orizzonte esteso fra i baffi di quelle spighe che limitano la profondità di campo, schiocchiamo insieme i nostri “gottini”, uniti in un abbraccio, in cui l’essenza di bacco fa la sua parte stordendomi, rendendo quell’abbraccio struggente, immenso, come la natura che ci circonda, come l’intensità espressa dal vino di Alviro, come quelle lacrime offerte dal formaggio, mai stato così fiero del suo sapore.
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