domenica 11 marzo 2012

Racconto “Cin! Cin!” di Silvia Scapinelli per WINE ON THE ROAD




Silvia Scapinelli ha partecipato al quinto concorso letterario di Villa Petriolo “Wine on the road” col racconto “Cin! Cin!”.

Silvia, di Bologna, scrive di sé: “Dopo una esperienza formativa in Spagna, di ritorno a Bologna mi sono laureata in lettere moderne (2005)”. Nel 2009 mi sono laureata in Sociologia con specialistica di due anni. Attualmente sono Responsabile di una Biblio Scientifica e studio Progetti Internaz.. Per alcuni anni ho pubblicato articoli a carattere culturale su quotidiani.
Nel 2011, per la prima volta, ho partecipato e vinto primo e secondo posto a tre concorsi letterari nazionali. Il mio sogno narrativo è poter scrivere di cibo e vino.


Racconto “Cin! Cin!” di Silvia Scapinelli


Cin! Cin!L’ultima delle quarantatre candeline sulla torta rimase ostinatamente accesa di fronte ai visi impietriti dei presenti. Pensai che fosse una casualità in piena sintonia con il periodo della mia vita: mia moglie mi aveva appena lasciato per un architetto danaroso. La notte la trascorrevo nel retro della mia enoteca che aveva subito un poderoso calo di clienti. La cantina era più svuotata di me, ormai avevo iniziato ad attingere alle prestigiose bottiglie d’annata. Alla luce di tutto questo come avrebbe potuto spegnersi l’ultima candelina? La guardai bruciare lentamente e quando spontaneamente la fiammella svanì espressi un desiderio: ritrovare la passione, provare ancora un fremito al cuore. E, quasi per miracolo, il desiderio si avverò.
Congedai i pochi amici e rimasi a fissare le botti. Pensai al vino come non facevo da molto tempo. Il vino maliardo che fece innamorare mia moglie ora me la toglieva. Mi aveva chiamato “ubriacone” e di fronte alla prospettiva di trascorrere il nostro anniversario per cantine mi congedò consigliandomi di andarci solo a percorrere i miei “itinerari dell’ebbrezza”. Lei voleva andare al mare e con la mia vigna mi ci potevo pure impiccare.
Qualcuno dei suoi preziosi suggerimenti lo seguii. Desideroso di dare una svolta alla mia vita partii per cantine con il mio vecchio Saab rosso, un po’ come in quel film Sideway con Paul Gaiamatti che vaga per le vigne della California.
Il mio pretesto divenne rifornire la mia enoteca con scelte studiate e personali in giro per l’Italia. Quello che la mia ormai ex moglie mai mi perdonò fu come potevo amare tanto quelle banali bottiglie e per anni cercò di distogliermi dal mio amore più schietto: il vino. Lei non poteva capire come il vino potesse nascere tra arte e mestiere, tra terra e cielo, tra antico e moderno, tra cuore e cervello. Assaporare, immaginare il vino e la sua narrazione è una storia intrisa di sensualità. Tanto è vero che nessun senso rimane a lui dispensato: vederne i riflessi, indovinarne il profumo, sentire il gorgoglio mentre si versa nel bicchiere, afferrare con stile il calice e infine gustarne sapore e sostanza. Il vino può lasciare macchie indelebili che non si cancellano né dagli abiti, né dall’anima. Tuttavia il vino non è solo questo. Il vino non è solo dionisiaca ebbrezza che rende vivi i viventi. Non è soltanto nume tutelare della perdita della ragione, della disinibizione che riconduce gli uomini al loro stato primordiale facendoli ballare e cadere nell’esaltazione parossistica fino all’orgia dei sensi. Nella storia della vita del vino c’è molto più di apollineo di ciò che si può credere. I grappoli di uva lambiti dal sole, la raccolta, la pigiatura, l’imbottigliamento, l’etichettatura sono vicende di ordine, armonia ed equilibrio. Il vino può avere un corpo fermo e autorevole come un tronco secolare che racconta di vento ancora ardente.
Mia moglie mi lasciò solo con le mie poche e maledette bottiglie e io, per obliare il dolore, iniziai a flirtare con le cantine italiane. Don Giovanni della vite dopo averne amata una mi dedicavo a un’altra dimenticando presto la nostalgia.
Ogni cantina mi elargiva qualcosa. Lo spazio sapiente e ancestrale che ospita la poesia del liquido inebriante, l’odore umido e basico delle pareti mi penetrava nelle ossa come un tuffo al cuore irrazionale. Se fossi stato un pittore sarei stato Burri e avrei dipinto le muffe porose della cantina. La freschezza delle mura mi invitavano a carezzarle con tutto il palmo della mano o sovrapporvi le labbra desideroso di stringere un contatto più intimo.
Ogni vigna mi offriva qualcosa. Sfogliando il mio taccuino di allora rivivo i profumi e i sapori dalle Alpi ai monti Nebrodi.
Rivedo le imperanti cime dolomitiche che poggiano su verdi declivi di meli e vite. Essi si stagliano a filari ordinati e taciturni come i loro vignaiuoli avvezzi alla solitudine montana. Le loro cantine sono accurati scrigni di vini bianchi e profumati di chiodi di garofano, rosa e frutta secca. Salto alcune pagine e mi ritrovo tra la val di Greve e la val di Pesa, tra campi di girasole e snelli cipressi guardiani di cascine senza tempo dove si profilano le vigne del Chianti. Gli ultimi giorni di Agosto, quando l’estate è ormai una abitudine e profuma di foglie di fico e terra bruciata dal sole, le vigne del Chianti sono appesantite da opulenti grappoli bruni. Quando il vino Chianti viene versato nel bicchiere per essere assaporato, il calice deve essere ampio e capiente come il vaso per le peonie, e il vino si deposita laggiù nel fondo del bicchiere per respirare comodamente all’aperto e a pieni polmoni come per liberarsi da una interminabile costrizione in bottiglia. Colore e profumo si eguagliano: viola, ciliegia e frutti di bosco. Piroettando il bicchiere con maestria l’aroma sale fino al cielo e tinge il bicchiere di ampi archi intrecciati.
Alcuni cibi creano con il vino legami inscindibili: la piadina non si ingolla senza uno “schioppetto” di Sangiovese. La Romagna, che è simpatia, produce questo vino che è esuberanza e profumo di gioventù. Il Sangiovese è una bacca rossa che spunta tra l’azzurro dell’Adriatico e i dolci rilievi romagnoli. Ogni cascina che si rispetta produce qualche litro di Sangiovese e tra Sant’Arcangelo e Bertinoro ci sono più vigneti e cantine che cespugli. Ma un altro matrimonio d’amore tra cibo e buon bere è anche: porchetta e vino dei Castelli romani. Quando le domeniche di primavera Roma si affolla di turisti stranieri che si rinfrescano nelle fontane del Bernini, il romano possiede un asso nella manica: scappare a Marino e fermarsi tra i freschi colli a farsi porchetta e Frascati. Il colore del vino dei castelli è dorato e lucente e il sapore di acacia matura e gelsomino, un fruttato di pesca e pera decana è perfetto per la delicata sapidità della porchetta steccata con la salvia. Scorro rapidamente le pagine fino in fondo al taccuino. Le tappe finali: i due apici del sud Italia bagnati dal mare: Sardegna e Sicilia. Là dove il mare è prigione e libertà c’è una Sardegna meno nota, ben lungi dalla mondana Porto Cervo: il Sulcis e le isole di San Pietro e Sant’Antioco. Lo sguardo sconfina tra paesaggi selvaggi e in strade che si perdono nella macchia mediterranea. Pietre brune, rosse e a volte viola calano a picco sul mare verde smeraldo. Sulle alte dune di sabbia adamantina germogliano fragili gigli di mare e dalla terra madre fatta di sabbia nasce la bassa vigna odorosa. Lì tra il Pan di Zucchero e sant’Anna Arresi vive un vino cupo ma pieno di doti: scuro è il vino, scurissime le bottiglie dove viene conservato. Esse sono ombrose come le femmine sarde con i loro vestiti di nozze mauritane: austere, belle e semplicemente eleganti. Sono avvolte da un mistero come un battito di lunghe ciglia nere o come le spalle delle giovani donne coperte da scialli di seta finemente ricamati che chiamano ”su sciallinu e’sera”.
Ancora più giù emerge uno dei cinque sensi dell’Italia o per dirla con versi di Goethe:” L’Italia senza la Sicilia non lascia immagini nello spirito: la Sicilia è la chiave di tutto”. Difficile cogliere cosa renda tanto magica la Sicilia. Probabilmente è un alchimia perfetta fatta di colori, personalità, fragranze. La Sicilia costringe a rallentare la vita che diviene più molle, più dolce. Dolce come l’effluvio delle albicocche, del miele e dei fichi secchi racchiusi nel calice nel passito di Pantelleria. Ambrosia degli Dei. E’ un nettare dai riflessi ambrati un raggio di sole al tramonto riflesso nei bruni e birbanti occhi dell’isolano. Nemmeno Ulisse seppe resistere al secondo calice.
Quanti ricordi emergono ancora nella mia mente legati a terra e vigna, ma non posso restare ancora qui a fantasticare di gusto sul mio taccuino… devo ancora iniziare a stappare e godere della mia ritrovata passione. Ho perso la moglie ma “on the road” ho ritrovato la mia vecchia ma sempre nuova amante…oh dolce Vigna. Grazie a lei la mia enoteca è di nuovo in trepida attesa di diletto..Cin Cin!

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