venerdì 6 aprile 2012

Racconto “Plage” di Stefano Nicoletti per WINE ON THE ROAD



Stefano Nicoletti è nato a Viareggio nel 1975. Scrive di sé: ”Sono appassionato di mille cose, ed è difficile non fare una lista della spesa…. Cinema, scrittura, arte figurativa… mountain bike, rugby, tennis, beach volley…lettura, nuove tecnologie. Ho un lavoro ordinario in un’agenzia bancaria scelto dopo aver lavorato qualche anno nella direzione marketing e commerciale della banca stessa. Mi piace l’originalità, in tutto quello che faccio vedo sperimento”.
Ha partecipato al quinto concorso letterario di Villa Petriolo ”Wine on the road” col racconto “Plage”.

Racconto “Plage” di Stefano Nicoletti

Il paesaggio intorno alla capanna era immobile da giorni.
Il mare rimaneva calmo e le sue mille sfumature di blu definivano l’orizzonte, deserto, con una netta linea retta.
Lungo la riva dove moriva con dolcezza il mare, la stretta spiaggia d’avorio si allungava all’infinito, limitata da una fitta, lussureggiante vegetazione.
Il cielo, poi, era solcato da pochi, lenti, uccelli e da molte, candide, nuvole, spinti da una brezza costante da sud ovest.
Apparentemente in un punto qualunque della distesa di sabbia giaceva la capanna, costruita con rami frondosi ad una distanza identica sia dal mare che dalla foresta.
Accanto ad essa sedeva un uomo.
Vestito di cenci, la sua pelle d’ebano era abituata al sole, al vento, al sale. Pelle di marinaio. Scrutava l’orizzonte con attenzione e dedizione, muovendo lentamente la testa da una direzione all’altra, quando dalla capanna spuntò un ammasso di capelli grigi, arruffati sopra una testa rugosa e abbronzata.
“Mejun!” chiamò questi in modo burbero, “ancora niente?”.
L’altro, senza distogliere lo sguardo dalle distanze marine, scosse il capo. L’uomo dai capelli grigi gattonò allora fuori dal suo rifugio, si alzò in piedi e prese anch’egli a scrutare il mare, con le mani sui fianchi. Era gigantesco, eppur goffo, con una pancia prominente retta da gambe malferme, coperto anch’egli di stracci, eccezion fatta per una collana d’oro massiccio che dal suo collo possente scendeva fin quasi all’ombelico.
“Lo sapevo. Creperemo qui di qualche malattia, o ci sbraneranno le belve della foresta. Che fine… che fine per un marinaio! costretto a terra, alla quiete irreale di questa spiaggia tropicale dolce… e allo stesso tempo silenziosamente inquietante. Che fine… che fine per un uomo d’azione che ha spronato mille uomini alla conquista di navi e porti di mare! Sempre in prima fila, il primo a sparare, l’ultimo a rientrare a bordo! …ora obbligato all’attesa, all’ozio, a coltivare impotente una tenue speranza. Che fine… Cosa darei per veder gonfiarsi di nuovo le vele della mia amata Velazquez, che ora ospita ogni genere di pesce sul fondo del mare! Cosa, per sentire ancora scricchiolare il suo ponte mentre affronta i marosi! Tutto, tutto, darei! Ah, povero me! Almeno, caro e fedele Mejun, se tu avessi il dono della parola potremmo farci compagnia, ricordare qualche impresa compiuta assieme, entrare nei dettagli, riviverla attimo per attimo… per ritrovare qualche particolare dimenticato e riportarlo in vita, per continuare a pensare che quello sia ancora il nostro presente e non un passato che sarà presto dimenticato! Invece tu non parli e a me… a me sembra di aver solcato inconsapevolmente l’ultimo mare che mi è ancora sconosciuto, quello battuto da venti così impetuosi che a nessuno permette un viaggio di ritorno. Ecco: Comandante Azùl, quest’isola enorme e disabitata non è forse per te un assolato e immobile purgatorio? Un luogo dove scontare i tuoi peccati prima di prendere il largo verso il tuo ormeggio definitivo? Tutto questo non è la dimostrazione matematica di… di… di… Ma che sto facendo? Parlo a me stesso ad alta voce, come un’anima sensibile impazzita dopo la sua prima battaglia… Questo diventerò, un pazzo? O lo sono già? E poi, è davvero tutto finito? No. No, finché avrò l’unica speranza che mi rimane: scrutare il mare, fino a farmi scoppiare gli occhi, finché non si aprirà una breccia nella linea dell’orizzonte, un punto indefinito che diventerà col passare delle ore più grande e più grande ancora. Una nave, con tutte le vele al vento. Quello sarà il momento della verità: il mio cuore tremerà ancor più di adesso, finché non sarà chiaro che la bandiera che sventola su quel naviglio è nera come la pece, nera come la notte senza stelle, nera come l’inferno. Allora saremo salvi e il sangue riprenderà a scorrere nelle mie vene come il vento alla fine del mondo. Ma se a sventolare sarà invece una bandiera di un qualsiasi altro colore, sarà chiaro che questo non è il mio purgatorio, ma il mio inferno e quelli che sbarcheranno nient’altro che i miei carnefici”.
Pronunciò queste ultime parole lasciandosi cadere sulla sabbia finissima, esausto, accanto al muto compagno che continuava a scandagliare ogni singola onda davanti a lui, senza scomporsi, come se non desse alcun peso a quello sfogo.

Nessun commento: