mercoledì 12 dicembre 2012

A’ Puddara 2009 di Tenuta di Fessina tra i vini “rocciosi” di Scatti di gusto

A’ Puddara è un vino rigoroso e delineato come la Muntagna che si staglia nella notte… Il giornalista Alessandro Bocchetti, sul blog Scatti di gusto, affronta una tema spinoso: cos’è esattamente un vino “minerale”? La risposta è affidata alla scelta di cinque vini “rocciosi”, tra cui compare anche il nostro Etna DOC Bianco A’ Puddara annata 2009 di Tenuta di Fessina, Carricante in purezza: “già il nome è quello di un vulcano, per un vino dell’Etna che mi impressiona ogni volta. Da un vigneto di Carricante ad alberello arrampicato sull’Etna a 900 metri, la versione 2009 è fantastica, fresca e sulfurea insieme”. Molto interessante la disgressione, anche terminologica, contenuta nel post: “Mineralità è forse la parola più abusata degli ultimi anni in ambito enoico. È tutto un fiorire di vini minerali e rocciosi, di pietre focaie. Come se il vino non venisse più dall’uva ma da un succo di roccia. A me fa un po’ sorridere il termine, anche perché ho sempre più l’impressione che detta così significhi tutto e niente. Provate a chiedere a dieci ‘esperti’ del bicchiere cosa intendano per un vino minerale, temo avrete parecchie risposte differenti e varie. Il vocabolario non ci aiuta, se facciamo una ricerca sulla parola mineralità ci rimanda al termine minerale, cioè “che presenta caratteristiche dei minerali”, come dire un cane che si morde la coda. Se andiamo a ricercare sui siti di vino, si va da chi lo associa al legame con il territorio e quindi con l’identità del vino, a chi lo usa per la freschezza e acidità, chi in senso proprio con i profumi di silicio e sulfurei e chi invece lo riconduce alla salinità del vino. Insomma come la giri la giri, una gran confusione. Ma esiste la mineralità in un vino? Diamine! Per me si! E ha un inizio e una fine ben precisa. La prima volta che ho pensato che un vino fosse minerale, la ricordo come fosse ora. Ero seduto ai tavoli fuori di un ristorante che ho molto amato: Pierino ad Anzio, preso nella abituale mangiata di pesce. Dovevano essere i primi anni Novanta, Sandro mi portò una bottiglia che non conoscevo e che mi colpì subito, la bottiglia era panciuta ed elegante, l’etichetta strana e raffigurava una sasso irregolare. Il nome poi, un fulminante Silex, più che un nome era una dichiarazione d’intenti. Appena ci misi il naso dentro, fu folgorazione. Avevo già bevuto altri Pouilly fumé, altri bianchi della Loira. Ma una roba come questa di Daggenau mai. Al naso sembrava che quella pietra dell’etichetta fosse stata spremuta. Sentori di pietra focaia, di terra sassosa, profumi ancestrali e primigeni, ma vivi e intensi, di estrema nitidezza si impadronirono del mio naso e del mio palato. Incredibile. Da allora molta acqua è corsa sotto i ponti e molto vino nei miei bicchieri ma a me è rimasto il piacere e la curiosità verso vini bianchi che sanno di sasso, che evolvono superando la fase immediata del frutto e prendono note terziarie sapide e primigine, estratte dal terreno e dal climat in cui nascono. Il minerale per me va braccetto con i vini bianchi, perché nei rossi diventa altro, più simile al goudron dei francesi, ma questo è un altro discorso. E allora eccoli i miei 5 vini ‘rocciosi’ (…)”. (Alessandro Bocchetti, Scatti di gusto, “Vini minerali. Cinque etichette scavate nella roccia aspettando le tue”, 11 dicembre 2012)

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