martedì 25 giugno 2013

Dove va la viticultura etnea

_Tenuta di Fessina, Rovittello_ Qualche tempo fa sulla rivista OINOS è stato pubblicato uno stimolante articolo, firmato da Massimo Lanza, sulla cifra etnea delle origini della viticultura siciliana. “Nella storia vitivinicola siciliana – scrive Lanza – l’Etna ha storicamente rivestito, sin dalle origini, un ruolo di primaria importanza. Basti ricordare che la prima colonia greca in Sicilia è stata l’attuale Naxos e che sono stati proprio i Greci a istruire le popolazioni locali all’uso dell’alberello per allevare la vite, ma si deve a loro anche l’introduzione di quelli che adesso chiameremmo vasi vinari nella lavorazione del vino”. Strabone è tra i primi a celebrare la qualità dei vini dell’Etna, ribadita nel Cinquecento da Fazzello e Bacci. Riportiamo integralmente l’interessante pezzo comparso su Oinos. “(…) Tra metà Settecento e fine Ottocento la viticoltura sull’Etna ha dimensioni tali da essere la prima attività economica in quella che allora si chiamava Contea di Mascali. Tanto per fare qualche numero, a fine Settecento la superficie vitata nella fascia pedemontana dell’Etna contava su circa tremila ettari e, a tal proposito, è interessante leggere le parole dell’abate fiorentino Domenico Sestini, che, tra il 1774 e il 1777, visse a Catania, che ricorda il suo soggiorno in terra etnea in una memoria letta il 29 gennaio 1812 all’Accademia dei Gergofili, che ancora ne conserva i manoscritti, in cui descrive i vini siciliani in generale e quelli della contea di Mascali in particolare, arrivando a trovare delle similitudini tra la famiglia dei Nerello e il San Gioveto. Spinta dalle esportazioni in Italia, ma anche all’estero, la coltivazione della vite sull’Etna continua a espandersi anche in quegli anni, tanto che nel 1844 una fonte attendibile, come il Catasto Borbonico, registra in quella stessa zona più di cinquemila ettari di vigneto, ovvero la metà circa dei terreni destinati all’agricoltura dell’intera Contea. Ed è a quel periodo che risalgono le prime bottiglie etichettate come vino dell’Etna e perfino una discreta produzione di spumante: sarà poi la fillossera, col suo arrivo, a mettere in ginocchio l’intero comparto vitivinicolo etneo, tanto che, tra le due guerre mondiali, la ripresa è minima: a dare il colpo di grazia definitivo alla viticultura sul vulcano è infine la repentina industrializzazione della provincia catanese degli anni Sessanta e il conseguente abbandono delle campagne, a favore della città. Sono quindi bastati pochi decenni per far quasi scomparire dall’Etna più di duemila anni di viticultura, basti pensare che negli anni Settanta del secolo scorso le aziende che imbottigliavano, etichettandolo, il loro vino non arrivavano a venti. La riscoperta dell’Etna è di quest’ultimo decennio ed è stata in gran parte dovuta all’infaticabile opera di alcuni storici produttori come Barone di Villagrande, Scammacca del Murgo e soprattutto Benanti, che, per primo, ha intuito le grandi potenzialità di questo territorio. Il resto è storia recente, adesso sull’Etna le cantine che imbottigliano col loro marchio sono una settantina e di questo terroir quasi unico ricordiamoci sempre che stiamo parlando di un vulcano attivo, anzi molto attivo, con un microclima estremamente particolare, fatto di escursioni termiche molto accentuate anche in piena estate. Come uniche sono le uve più diffuse sull’Etna, quali il Nerello Mascalese, il Nerello Cappuccio, il Carricante e la Mannella, che, solo in questa zona e nella limitrofa provincia messinese, trovano, da sempre, il loro habitat naturale. Forti di oltre due millenni di storia, i vini dell’Etna sono stati tra i primi del meridione a fregiarsi della Denominazione d’Origine Controllata, a loro riconosciuta nel lontano 1968, mentre di recente, nel 2011, il disciplinare della “DOC Etna” è stato modificato: le modifiche più importanti riguardano le tipologie permesse, che passano a sei, infatti alle precedenti Bianco, Bianco Superiore, Rosato e Rosso, adesso si aggiungono il Rosso Riserva e lo Spumante, fotografando di fatto una realtà presente e diffusa. Molti produttori, considerando le caratteristiche delle uve con cui si producono questi vini, preferisce tenerli in cantina qualche anno in più ad affinare, mentre, come abbiamo visto, la produzione di spumanti sull’Etna è già documentata e risale a più di un secolo fa. Mi convince meno e mi lascia più perplesso l’altra grande novità introdotta dal nuovo disciplinare, ovvero, come testualmente recita il comma 1 dell’articolo 7, “La denominazione d’origine controllata dei vini ‘Etna’ può essere seguita da indicazioni geografi che aggiuntive, riferite a unità amministrative o contrade, dalle quali provengono le uve, così come identificate e delimitate nell’elenco di cui all’allegato 1 del presente disciplinare di produzione”, che, tradotto dal burocratese, significa che, sin da subito, si potranno inserire in etichetta i toponimi delle contrade dove viene prodotto il vino. Dando un’occhiata all’allegato uno, salvo qualche ripetizione, ne ho contate ben più di cento, sparse per tutto il territorio etneo. Bisogna dar atto a Giuseppe Benanti di esser stato il primo che, da solo e testardamente, ha insistito, rischiando in prima persona, a voler mettere il terroir d’origine in etichetta: Pietramarina, Serra della Contessa, Verzella ne sono un esempio. La sua battaglia è stata solitaria sino al recente arrivo sull’Etna di altri due personaggi di spicco del mondo del vino, Marco De Grazia e Andrea Franchetti, che, anche loro, hanno preferito indicare in etichetta il nome della contrada d’origine, anche se non ancora espressamente previsto dal disciplinare. Ma si è trattato sinora di poche etichette, tra le loro, quelle di Benanti e quelle di Russo si arriva forse a poco più di una dozzina. Capisco che spesso e volentieri si è fatto il paragone tra Borgogna ed Etna, chissà quante volte avrete letto che questo fortunato lembo di terra siciliano è diventato la Borgogna d’Italia. Non voglio entrare in merito a questo paragone, mi limito a registrare che la Borgogna è molto più estesa e che l’intera superficie vitata sull’Etna equivale a circa il 1 % di quella borgognotta. Se il paragone nasce dal numero di contrade, mi limito a ricordare che in Borgogna le denominazioni territoriali sono regolate da qualche secolo, non solo dal punto di vista geografico, ma anche qualitativo, Cru, Premier Cru, Grand Cru e via discorrendo, per intenderci. Mentre il concetto di contrade, legato alla produzione del vino, come abbiamo visto, è alquanto recente sull’Etna, per quanto non possiamo negare certo che, storicamente, alcune zone siano considerate più vocate di altre, personalmente ho sempre sentito parlare della bontà dei vini di Solicchiata, piuttosto che di quelli di Rovittello o di Caselle, il problema è ben altro. Mi chiedo che senso ha introdurre una novità così grande senza una preventiva classificazione qualitativa dei cru, e se il rischio di questa grande operazione non sia quello di generare confusione nel consumatore, che, tra qualche anno, si ritroverà sullo scaffale decine e decine di etichette riportanti un toponimo che gli suggerirà ben poco. Non me ne vogliano gli amici produttori etnei, che sanno bene quanto apprezzi i loro vini, ma mi chiedo come il mercato reagirà a questa novità e quanto tempo sia necessario prima che sia il mercato stesso a fare la sua selezione, sperando che, nel frattempo, questo non generi tra appassionati e consumatori disaffezione verso questi vini. Intanto ho messo tra i siti preferiti del mio smarthphone google maps, in modo da non farmi cogliere impreparato quando mi capiteranno tra le mani le prime bottiglie con l’indicazione della contrada”. (Massimo Lanza)

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