venerdì 9 settembre 2011

NONNO GOAN di Ludovica Mazzuccato si classifica al terzo posto di "Wine on the road", concorso letterario 2011 di Villa Petriolo



Felicitazioni a Ludovica Mazzuccato per il terzo posto meritato al concorso letterario di Villa Petriolo “Wine on the road. Appunti di viaggio…per cantine”!


Ludovica Mazzuccato
, nata a Ferrara nel 1978 e residente a San Martino di Venezze (RO), ha cominciato giovanissima a manifestare il suo amore per la poesia aggiudicandosi nel 1992 il 1° Premio indetto dal C.I.A.S. di Roma e dall’UNESCO. Da quel momento ha raccolto prestigiosi riconoscimenti, come poetessa e come narratrice, in Italia e all’estero. Il suo “manifesto” è una frase di Simone de Beauvoir:“Il fatto è che sono una scrittrice: una donna scrittrice non è una donna di casa che scrive, ma qualcuno la cui intera esistenza è condizionata dallo scrivere”.

“Nonno Goan” nelle parole dei giurati: Viaggio di nonno e nipote, due epoche e due mondi diversi che verranno uniti dalla magia della terra e del vino, riscoperti e ravvivati dalle nuove generazioni di viticoltori che sanno coniugare la tradizione col mondo contemporaneo, ricreandola e celebrandola ad ogni vendemmia.
(Michèle Shah)


Racconto “NONNO GOAN” di Ludovica Mazzuccato


«Nonno ma sei sicuro che San Marzano non sia il paese di pomodori invece che del vino?» avevo ironizzato cercando di capire che cosa fosse successo al navigatore della mio cellulare che, con voce metallica, continuava ad intimarmi di girare a sinistra verso un precipizio.
«Al diavolo la tecnologia! San Marzano Oliveto è la culla del Barbera com’è vero che io mi chiamo Goar!» aveva prontamente bofonchiato.
«Ora non puoi prendertela con la tecnologia se tu non sei riuscito ad adeguarti e quando ti abbiamo regalato il cellulare credevi fosse una cassaforte per dentiera… Ma ti ricordi quando sei stato male al parco? Se non avessi avuto il cellulare probabilmente non sarebbe andata a finire bene. Comunque io non ho dubbi sul tuo nome, ma piuttosto che tu sappia dove dobbiamo andare».
Sì, mio nonno aveva un nome molto particolare. In realtà i miei bisnonni avevano deciso di chiamarlo così perché era nato il 6 luglio, giorno in cui si celebra proprio questo Santo vissuto al tempo di S. Benedetto. S. Goan era un eremita veneto che divenne patrono degli osti e che i tempi moderni hanno cancellato dal calendario quasi all’unisono con la scomparsa dell’oste.
Ora c’è chi sa preparare appetizer coreografici e versare il vino nel calice con la maestria di un acrobata, ma la figura dell’oste e davvero insostituibile. Un po’ psicologo e un po’ attore, un po’ consigliere e un po’ confidente, l’oste sapeva come far quadrare i conti e la sua massima soddisfazione era quella di leggere sul volto dei suoi avventori la felicità di aver gustato qualcosa di buono.
«Nonno, si dice “la Barbera”!» lo corressi dettata da quello spirito di contraddizione che si ha solo a vent’anni.
«Tu pensala come Pascoli: io preferisco Carducci. Italia, Italia! E il popolo de’ morti surse cantando a chieder la guerra; e un re e la morte nel pallor del viso sacro nel cuor trasse la spada…» disse mio nonno recitando con enfasi i versi del suo poeta preferito.
Quel nostro primo viaggio insieme era nato da una coincidenza. Qualche mese prima mio nonno mi aveva regalato la macchina nuova con la promessa che, qualche volta, lo avrei portato a spasso.
Un sabato sera a nonno Goan, risalendo dalla cantina, era caduta di mano una bottiglia di vino e mentre lo aiutavo a pulire il pavimento lui sospirò: «Barbera… Vorrei che ci fosse sempre questo odore così intenso, buono, rassicurante. Mi ricorda il profumo di quella cantina in Piemonte dove ci hanno sfollato per l’Alluvione… Come vorrei tornare ancora a San Marzano prima di finire come quelle bottiglie andate a male perché tuo papà le tiene da collezione!».
Quando un uomo con il Bardolino nel sangue, come mio nonno, lo senti dire queste cose non puoi che accontentarlo.
Il viaggio era stato più lungo del previsto, soprattutto quando mio nonno aveva cominciato a polemizzare sul mio pircing al naso.
«Sono arrivato a ottant’anni per non capire perché una cosa che si chiama orecchino, si mette nel naso… se quello fosse il posto giusto si chiamerebbe nasino…».
Ma proprio quando il mio saggio compagno di viaggio aveva cominciato a dire che il mio fidanzato non gli piaceva perché si dava troppa “colla per i sorci” in testa, esclamò improvvisamente:
«Siamo arrivati! Vedi quell’anfiteatro di colline… E tutte quelle là sono mele… Tutto il resto è Barbera!».
Avevo cercato di prepararlo all’idea che probabilmente non avrebbe trovato il suo compagno di giochi Mario Terzano e lo stesso poteva accadere per quella cantina che nella sua memoria brulicava ancora di mosto.
«Gli uomini muoiono, le cantine no: il loro sangue continua a scorrere finché nel loro ventre c’è ancora un botte che custodisce un sorso di vino».
Nonno Goan aveva ragione. Il suo amico Mario era volato nella vigna del Signore, ma c’erano suo figlio e suo nipote e la cantina era diventata davvero rinomata per la sua produzione di Barbera.
I signori Terzano furono molto gentili ed ospitali. Stapparono per noi una Superiore e, quasi come l’atto di restituzione che solevano fare i contadini ogni volta che aprivano una bottiglia, ne versarono una goccia sulla terra.
Si era fatto molto tardi, non c’era nemmeno più il tempo di visitare la cantina, ma è come se quella cantina l’avessi masticata nel sorso di Barbera, nel suono della campana, nella visione del castello del paese, nel timido saluto tra un vignaiolo e l’altro, che si sfioravano lungo una strada secondaria.
I Terzano ci fecero promettere di tornare ad ottobre per la vendemmia e mio nonno ricordò al signor Terzano che la sua bisnonna preparava degli ottimi cestini per il pranzo in vigna durante la raccolta dell’uva.
La grissia di pane, il salame cotto e crudo, il gorgonzola e le acciughe al verde. Per i più piccini c’era un cubetto di cioccolato bianco comprato durante qualche sagra paesana; gli adulti bevevano il vino versato da un bottiglione scuro e i bambini la spuma.
Mio nonno aveva aiutato la famiglia Terzano durante la Vendemmia dell’anno successivo al 1951, per sdebitarsi dell’ospitalità.
«Nonno è tardissimo! Dobbiamo proprio andare! Abbiamo parecchi chilometri da fare!» incalzai mio nonno prendendolo sottobraccio.
Mentre ci allontanavamo da San Marzano cominciammo a vedere dei piccoli bagliori accendersi tra le vigne. Se non fossi stato fine febbraio avrei pensato che si trattassero di luci di Natale.
«Hai letto “La luna e il falò”? Quelli sono i contadini che bruciano i legni della vigna riassettata dopo la potatura che anticipa la primavera. Lo fanno come rito beneaugurate e, contemporaneamente, con la cenere concimano la terra».
Sì, avevo letto quel romanzo, ma solo allora compreso perché Pavese aveva definito la vigna “il miele dell’anima”.
Mantenni la promessa e tornai a San Marzano nel periodo della vendemmia.
Mio nonno non c’era più, o almeno non era lì di fianco a me a brontolare per i mie jeans sdruciti, ma mi sembrava di vederlo sorridere in ogni acino d’uva.
Da quell’anno, ogni 6 luglio, visito un cantina in memoria di mio nonno. Spesso trovo la cantina chiusa, oppure ne scopro un’altra invece di quella che mi ero prefissata di visitare, ma ciò che mi inebria di più è quello che sta attorno alla cantina.
La cantina è come una donna perennemente incinta, è come un grande albero che condiziona tutta la vita di chi gli sta intorno. L’uomo si siede all’ombra del suo porticato, sorseggia dai seni bruni della terra l’ultima unghia di luce offerta da Bacco, la sua mente sgrana i ricordi, semi di un atavico Rosario che leviga calli e dolori e le parole non dette si sciolgono in gola come trecce di bimba tra le dita materne prima del bacio della buonanotte.
Mentre nella cantina tutto si compie, la sua magia esce per ogni crepa e per ogni fenditura, così il vino diventa sangue e il sangue inchiostro.
E agli uomini speciali, come mio nonno Goan, la vita inizia a dettare i suoi versi.

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