martedì 20 settembre 2011
"S'ALITA" di Tommaso Chimenti, racconto segnalato per merito al concorso di Villa Petriolo "Wine on the road"
Complimenti a Tommaso Chimenti per la segnalazione del suo racconto “S’alita” al quinto concorso letterario di Villa Petriolo “Wine on the road”!
Tommaso Chimenti è nato a Firenze nel 1973. Laureato in Scienze Politiche. Giornalista e critico teatrale per il “Nuovo Corriere di Firenze”, per www.scanner.it, per la rivista “Hystrio”. Curatore del volume “Mare. Marmo. Memoria”, Titivillus Edizioni. Ha scritto i monologhi teatrali rappresentati “La Funambola”, “Tacchi a spillo”, “Non mi hai mai voluto bene”, “Il prezzo del mattone”, “(B)Arca”. Scrive racconti: vincitore di concorsi letterari e pubblicato su riviste e antologie.
Racconto “S’ALITA” di Tommaso Chimenti
Sapevamo che sarebbe arrivata. Dal giorno prima, fin dalla prima volta quando mi era stata messa sotto il naso la mappa, la cartina delle varie soste, il disegno obliquo e sbilenco dell’altimetria. La salita era lì davanti a noi. La salita è una mamma che ti chiama, che ti coccola, una sirena che ti dice di non fermarti, che su, sempre più in alto, ci sarà quello che stavi cercando. Salire è già arrivare. Camminare, un passo avanti all’altro.
Ormai andavamo per inerzia, le gambe dure come ciocchi da ardere a dicembre, i polpacci che si tendono come fruste per montare la panna. S’alita sulla salita. Palle di fiato denso come i covoni di zucchero filato alla fiera di settembre, come un fungo atomico sopra un camino nucleare. Terza tappa del Pellegrinaggio Artusiano. Dalla Romagna a Firenze. Da Forlimpopoli fino al Piazzale Michelangelo. Dal paese di nascita di Pellegrino Artusi fino alla sua lapide al cimitero delle Porte Sante di San Miniato a Monte. 2011, cento anni dalla sua morte. In undici, come una squadra di calcio. Tutti titolari. Centoventi chilometri in cinque giorni. Fine marzo. Un pellegrinaggio senza conchiglie al seguito, camminatori per sbaglio, podisti per una settimana, a macinare metri ed a raccontarli, bevendo un vino, le occhiaie al collo, ginocchia di piombo.
La terza tappa è la più impegnativa. La aspettiamo, ne parliamo a cena la prima sera dopo il percorso inaugurale che ci ha portato a Castrocaro. L’odore di zolfo non riesce a coprire il vapore caldo dei cappelletti in brodo. Pellegrini si nasce. Siamo qui per rendere omaggio all’Artusi, camminando e degustando i suoi piatti.
Per strada ci conosciamo, ci raccontiamo. Cambiamo compagni di viaggio. Per la via, sulle gambe, siamo tutti uguali, livellati. Nessuna diversità: uguaglianza e sudore. Rompiamo il fiato, lo zaino sulle spalle. Vestirsi a cipolla è il motto della mattina. E mi fa sempre un po’ ridere. Piove, poi torna il sereno. Come nella vita. Nessuno che chiede “Quanto manca?”. Ogni risposta sarebbe superflua. I chilometri vanno fatti, insieme, ognuno con le proprie gambe. E’ una sgambata personale, con un fine comune. Non ci sono santi da invocare, scorciatoie da prendere.
Formiamo una lingua colorata ai bordi della strada. Signore con la busta della spesa in mano si fermano per un istante e ci guardano. “Da dove venite?”, chiede una con i capelli cotonati ed il sorriso ampio. “Dalla Romagna”, qualcuno risponde. Dall’altra parte silenzio, un briciolo d’incredulità. “Non era meglio prendere la macchina?”, un eco. Ma è l’ironia toscana, che accogliamo con piacere. Un piccolo Cammino di Santiago.
La seconda posta è a Portico di Romagna. E’ umido e fa fresco. Sembra fine ottobre, quando il caldo te lo sei lasciato alle spalle e ti aspettano solo finestre rigate di colate di pioggia come Madonne piangenti. Il cielo è gonfio che sembra che possa bastare uno spillo a far scrosciare quella grondaia in un attimo. Parliamo del vino ma anche del bollettino medico dei piedi e dei muscoli di ognuno di noi. Le vesciche sono diventate, insieme a medicinali, integratori di magnesio e potassio, creme per massaggi e scaldamuscoli, stretching e cerotti, i nostri temi di conversazione preferiti.
Eccitati e un po’ preoccupati arriva il terzo giorno. Il giorno. Quello che tutti aspettavamo con ansia. La salita del Muraglione, che solo a pronunciarlo sa d’impresa epica, di roba d’altri tempi, di ciclismo vintage. Una cartolina in bianco e nero, una fotografia seppia con uomini chini sotto il peso della loro soma, a portare, forse a scappare. Terra di briganti, di fughe nelle tenebre. C’è un silenzio palpabile nell’aria. Poche parole, risparmiamo le energie e il fiato. Il serpentone si allunga subito. Non è una gara, non è una competizione. Ventotto chilometri ci aspettano. La sorpresa è quell’acqua che minacciava la sera prima e che adesso si è trasformata in tante, fitte, continue gocce.
Ci stiriamo le gambe, un’ultima fotografia di gruppo, un poncho di gomma a ripararci testa, polmoni e sacche sulle spalle. Chi si è trovato lungo la strada un compagno di viaggio a forma di bastone che sembra uno di quei legni bianchi che la risacca sputa d’inverno sulla spiaggia della Maremma. Legni da Mosè, da rompere le acque, da invocare il cielo.
La salita è una brutta bestia perché ti coglie impreparato, anche se eri pronto fino all’attimo prima. Venti chilometri di salita fino al Muraglione ai quali seguiranno otto di discesa fino a San Godenzo. Si saluta la Romagna e si entra dove ci si mangia la ci, si saluta il Lambrusco per il Chianti, la piadina per il panino con la finocchiona.
Non smette un minuto di piovere. A vento ti punge la retina, fa strizzare la vista, gli occhi come fessure, intercapedini, screpolature, come tagli di Fontana su tela. Ognuno sale con il proprio passo. Il cappuccio ben calzato sulla testa come profilattici. Siamo colorati con i kway sgargianti o militari, blu d’ordinanza o neri funebri. Un tocchetto di cioccolata ogni tanto per mettere carbone nel motore delle gambe. E’ una sfida che verrebbe da guardare il blu notte sopra di noi ed urlare “E’ qui tutto quello che sai fare?”. Ma sarebbe una scena troppo cinematografica.
La salita è un cane che abbaia e che si finisce il fiato strozzato dalla catena. E’ Melampo che ti lascia il passo dicendoti “Accomodati”. La salita aggiunge un posto a tavola, si scansa, schiacciandosi sulla panca per farti posto. S’alita avanti a noi come un treno rugginoso di deportati. Sembriamo bilie lanciate al rallentatore da un bambino su una pista della Versilia. Io prendo Moser, io tengo Saronni. E poi vinceva sempre quello che aveva la pallina con la faccia di Senna.
Siamo zuppi dalla testa alle mutande. Non si salva niente. Siamo in cammino da ore. Poche macchine ci hanno incrociato. I tendini d’Achille infiammati, la gomma delle scarpe che riscalda i talloni. Camminiamo sul ciglio della strada, l’odore forte del bosco che c’inonda, la vallata è una conca verde. I rami degli alberi pesanti, prossimi al rompersi, le foglie come fossero stanche, depresse, sotto tutti quegli schiaffi freddi a forma di piccoli palloncini rovesciati. Praticamente una cascata, un secchio d’acqua, come a Ferragosto sul bagnasciuga.
Il dolore ai piedi si è spostato a tutta la gamba. Le articolazioni scricchiolano, le ginocchia cedono. Non ti fermare, mi dico. Non ti fermare, mi dicono. Non ti fermare, dico agli altri. Se sosti, anche solo per pochi minuti, è difficile ripartire. Ricominciare a mulinare passi come colpi su un ring. Ci vuole costanza, tempo e decisione, ritmo, controllo. Nessun scatto, nessuna improvvisazione, nessun sprint. Nessun cronometro, solo il battito della suola sull’asfalto bagnato.
Venti chilometri in salita, pare un miraggio. Intorno infuria la bufera. Il vento arriva ghiaccio sui vestiti fradici. Ripari non ce ne sono. E poi abbiamo una missione. Portare la bandiera del pellegrinaggio fin sulla tomba dell’Artusi. Ce lo siamo detti, lo abbiamo promesso. Ce la faremo. Intanto c’è da scalare fino ai novecento metri d’altezza. Le nubi sembrano disegnate con le loro ombre nere, la nebbia taglia la visuale. Le pozzanghere sembrano piscine per bambini in un giardino di luglio. Senza paperelle.
Poi l’arrivo al Muraglione, quell’ammasso di sassi e pietre a formare una esse in cima al monte. Il brivido che ci prende, l’abbraccio in cui ci sciogliamo, la felicità di esserci arrivati con le proprie gambe. Con un tempo da lupi. Sentiamo tutto il gusto del morso del panino che è mangiare e non ingozzarsi. Ogni minima briciola ha un senso. Si brinda in bicchieri di plastica ed il cronch che fanno è il più bel suono che ricordo. E’ un campanello il giorno di Natale, è una telefonata di un amico, è il fiocco di un regalo, è il tintinnio di un giocattolo. Siamo arrivati. Il più è fatto. Ci sorridiamo. Ancora due giorni di cammino fino alla pietra tombale artusiana. E siamo così stanchi che vorremmo finisse oggi, e siamo così soddisfatti che vorremmo non finisse mai.
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