mercoledì 28 marzo 2012
Il racconto “Nel tempo di mezzo bicchiere” di Carlo Bono per WINE ON THE ROAD
Carlo Bono racconta di sé: “Nasco e vivo a Milano. Conseguo il diploma di maturità scientifica nel 2001, e successivamente la laurea in Filosofia nel 2007, presso l’Università degli Studi di Milano, e la laurea in Ingegneria Informatica nel 2011, presso il Politecnico di Milano. Attualmente mi occupo di insegnamento, principalmente nell’ambito dell’analisi matematica, e di sviluppo software. Collaboro con una casa editrice milanese, in qualità di lettore nell’area della saggistica estera”.
Per “Wine on the road”, concorso letterario 2011 di Villa Petriolo, ha scritto il racconto “Nel tempo di mezzo bicchiere”.
Racconto “Nel tempo di mezzo bicchiere” di Carlo Bono
Non vale la pena guardare l’orologio. Saranno le cinque, le sei, o comunque l’ora in cui il colore della luce comincia a scaldarsi, spegnendo il verde dell’erba e marcando le tinte della terra. Si sposta un accenno d’aria, carica di collina e di mietitura, che soffia via le ore più calde; un pergolato in legno e pietra risparmia la pelle dal sole maturo. Tavoli di legno crudo, panche svuotate, gente diradata, silenzio sottovoce. Qualche albero solitario. Mi lascio scivolare sulla sedia, perché è il momento di farlo.
Poco più in là Folco smanetta sul telefono per non so che curiosità enciclopedica. Si passa la barba breve con la mano, si avvicina al tavolo e borbotta il suo terzo “per me, i piemontesi sono meglio” di oggi. E intanto manda giù un altro sorso, con un gesto automatico, rituale. Sorrido interiormente, non si sta rivolgendo a nessuno. Marta guarda il cielo e pensa a non sai mai cosa; inspira lentamente, le mani sulla balaustra, l’espressione distesa. Sento alle mie spalle le voci di una coppia di amici, discutono di non so cosa, tipo la vita, l’universo, tutto quanto. Léa è persa da qualche parte dentro, a distribuire sorrisi, forse anche a contrattare acquisti con il suo spirito da suq. Stiro le braccia all’indietro, le palpebre socchiuse, e la scena svanisce per un attimo.
È il momento sottile e lento in cui non accade nulla. O più semplicemente, quello che avviene non ha bisogno di motivi, regole, scadenze. Alleggerita dai pensieri ordinari, la coscienza si snoda e vaga tiepida, imprecisa. Tutto è al suo posto, senza che nessuno se ne sia preoccupato. Guardo i riflessi rossastri nel bicchiere. Lo giro, ne rubo l’aroma col naso, lo appoggio di nuovo. Accarezzo il residuo tannico in fondo alla lingua, ruvida traccia delle ultime ore.
Riavvolgo i pensieri di mezza giornata. Sto ricevendo uno sguardo di disapprovazione, un purista, forse un sommelier. Esco e mi accendo una sigaretta, e il dito mi indica, blasfemo. Sorrido, come spesso fanno gli eretici. Che vuoi farci, io sono solo un appassionato di vita, non un artista del palato; cerco il piacere del bicchiere adatto, del dove sei e con chi. Basta un solo critico a rendere noiosa un’opera d’arte: diffido di chi rende noioso il vino. Sono colpevole, ma oggi non chiederò pietà. Ricordo un viticoltore nel pavese, forse a Montalto, forse Casteggio, non so. Esce nel cortile dopo una degustazione, e senza vergogna si accende un toscano. Un cristo da un quintale per un metro e novanta, sui settant’anni. Mi osserva a lungo, quasi a cercare un’improbabile ispirazione, e se ne esce con qualcosa tipo: sai com’è che dicono, fiöl, che non si dovrebbe fumarci su, ma fammi dire questo, che a me il mio vino piace sempre uguale. Il vizio poi se l’è portato via, ma non saprei come dargli torto.
Ricordo che mal sopportava le comitive da turismo seriale, i plotoni da bevi acquista e fuggi. Fatto comprensibile ma curioso, per un produttore di vini. Diceva io qui ci voglio le persone, non le classi ammaestrate; non ci ho da insegnare il vino, ci ho da berlo. Tagliava fuori il discorso turismo nel suo aspetto funesto, ma non mentiva: faceva vini da uvaggio molto più che gradevoli, direi commoventi. E oggi, per certi versi, mi sembra di capire il suo pensiero. Ripartiti i gruppi organizzati, qui restano parole sommesse, sguardi trasparenti, pace. E il tempo pare adesso dilatato, a misura d’uomo.
Dev’esserci un punto di equilibrio, nel produrlo come nel goderne, che se non ci stai intorno il vino smette di parlarti. Una massa critica al di sotto della quale, o oltre la quale, il bicchiere rinuncia al suo calore, e ti resta solo un pezzo di vetro con un prodotto dentro. Non puoi starci troppo al di sotto, né troppo al di sopra. Lo senti nella calca di certe circostanze, minacciato da armi di degustazione di massa, la schiuma del consumo che schiocca smaniosa tra parole da copione. La sete di merce che porta via tutto. E lo senti all’opposto, nelle terre abbandonate dagli uomini e dalla poesia, che di questi due non riescono a mantenere il figlio più delicato, il vino. Ricordo che mia nonna lo ripeteva spesso, che dalle sue parti ël vin non lo sapevano più fare. E come può una campagna svuotata spremere anche solo un sorso di anima, se altre anime non ci affondano le mani dentro? Non è il trattore a fare buono il vino.
Folco ammazza un altro bicchiere, scambia due parole con Marta, si siede solenne e osserva un punto indefinito all’orizzonte. Singolare caso di simbiosi tra uomo e bottiglia. Folco che lo legge sui volti, se vale la pena di comprare il vino, e Folco che insomma, lo si fa un giro questo weekend? Ci siamo conosciuti tra un boia e l’altro in enoteca, in Val di Chiana, un brindisi, due brindisi, risate, trattoria, due vuoti di Nobile, giusto per sottolineare che “per me, i piemontesi sono meglio”. Che detto da un toscano, fa un suo effetto speciale. Marta ha avuto la malsana idea di sposarselo, questo santo bevitore, e insieme formano un’insolita coppia di apollineo e dionisiaco. Marta che preferisce il vino bianco e Marta che finisce sempre a guidare al ritorno. Vent’anni di transumanze sentimentali non le hanno sfilato l’accento veneto, di Negrar, né la sua spontanea eccezione ai bianchi, il Valpolicella. Marta degli autostop di fine estate e Marta dei discorsi seri, fuori orario.
Léa invece non si vede, avvolta di meandri di parole con qualche ignoto affascinato. Léa è di Nantes, e ha i colori dell’autunno. Ride ogni volta che manda già un sorso, e continua a ridere perché sa ubriacare gli altri. Beve poco, perché è lei stessa uva, dono di vendemmia, spirito del vino. Ha il fisico asciutto e gagliardo della vite, e la linfa impaziente dei tralci del nuovo anno. Incrociati per caso tre anni fa, dietro la porta di San Quirico d’Orcia; io, il milionesimo ignoto affascinato. Che stavo cercando non ricordo neanche cosa, e le chiedo d’impulso se sa di una buona cantina. Lei ride, mi guarda. E ride ancora. Poi aggiunge: je sais d'une coopérative, de près d'ici. E io sono fatto.
Mando giù un altro sorso. Le colline morbide lasciano che tutto vada avanti nei loro tempi. Un ragazzo saluta con la mano uscendo dalla porta, un cartone da sei sotto braccio. Tempo mezz’ora, e Folco bofonchierà qualcosa tipo “citti, si va mica a fare un giro?”. O forse Marta lo precederà, con qualche parola che le esce soltanto dopo il terzo bicchiere, tipo putei. Io qui sto bene. Sto bene dove ci sono loro e loro simili, animulae blandulae senza amarezza, e dove c’è sempre un buon bicchiere, animula della terra e dei suoi uomini, alla ricerca di tregua e sintonia, e nuovi terreni da impregnare: terreni umani. Sarà per questo che non ricordo poi un granché di Montalcino, di Barolo, di Montefalco, mentre posso ripercorrere infinite volte il profilo di Léa per le campagne di Noto, gli sguardi di Marta contro il tramonto a Bardolino, le parole di Folco nei vicoli di Verduno, mentre gli esce un arrossato “de’, questo sì che è un vino piemontese”.
Chiudo gli occhi per qualche istante. Tutto è al suo posto, semplicemente, senza piani, né motivi, regole, o scadenze. E penso che quasi, potrei versarmene anche un altro.
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