venerdì 29 giugno 2012
Racconto “Il Ciabot di ‘Uanén’” di Cristiana Luongo per WINE ON THE ROAD
Cristiana Luongo, di Asti, dall'ottobre 2010 collabora con Dentro la Notizia Break, Free Press d'Informazione Asti, Alba, Torino. Al Premio Nazionale “Il tartufo d’oro” – 1^ Edizione , Bagnoli Irpino (AV) - si è classificata al terzo posto con il racconto breve "Bobi e Bertu". Per “Wine on the road”, concorso letterario 20112 di Villa Petriolo, ha scritto “Il Ciabot di ‘Uanén’”.
Racconto “Il Ciabot di ‘Uanén’” di Cristiana Luongo.
Immaginate di ricevere una lettera da Asti…la vostra mente cercherà di cogliere il luogo geografico in cui piazzare quella città perché, se siete americani come me, il nome di primo acchito non vi dirà nulla. Immaginate di leggerne il contenuto, un messaggio scritto a mano. Scorrete con gli occhi le parole sconosciute, finché non leggete chiaramente Italia, ed una data, 15/07/2011. Avrete senz'altro intuito che d'italiano conosco ben poco ma ho pensato a qualche parente di mia madre; frugai tra le vecchie cartoline che, molti anni fa, i cugini le inviavano dal paese d'origine e toh, Asti. Chiamai mia madre, pregandole di tradurmi la missiva. Inforcò gli occhiali e cominciò a leggere a voce alta, finché dopo un paio di righe, si commosse, guardandomi con aria triste e dicendomi di partire e raggiungere Asti, come da direttive del notaio, poiché c'era un'eredità da accettare, quella di nonno "Uanén". Le chiesi di accompagnarmi, ma rifiutò, a causa delle sue gambe. In 50 anni, ci sono stato una volta sola, l'avevo completamente rimosso, ma decisi di prendermi una breve vacanza, giusto il tempo di organizzare viaggio e lavoro.
Più che una città, a me sembra un paese, Asti, e neanche di quelli grandi; Internet mi accompagnò durante il lungo tragitto in aereo, e occupai il tempo a studiare la città, nella regione del Piemonte, a Nord Ovest del paese. Il notaio parla un inglese scolastico ma ci siamo capiti a sufficienza, anche grazie a mia madre, al telefono; aprì una cassaforte ed estrasse una busta vecchia e ammuffita. La apersi, ma ecco di nuovo una scritta in italiano. Con non poche difficoltà, compresi che Uanén mi aveva lasciato un "Ciabot". Google mi delucidò su cosa fosse: un piccolo casolare in mezzo ad una vigna adibito, in passato, a magazzino per gli attrezzi del contadino che stava fuori da casa tutto il giorno, oltre che un riparo dal sole e dalla pioggia… il mio si trovava a Castell'Alfero, un paese della provincia. Dopo 15 ore d'aereo, 20 minuti di taxi non mi pesarono: dal finestrino posteriore dell'auto, non riuscivo a staccare gli occhi da ciò che forse avevo già visto, ma mai guardato. Quali dolci colline e quale geometria tra i vigneti avvolgevano la mia mente; tirai giù il vetro, nonostante il caldo afoso e la fresca aria condizionata dell'abitacolo e, credetemi, un profumo così, di terra e fiori, non ha paragone con nessuna essenza artificiale. Il paese lo vidi solo passare, il mio traguardo era fuori, in aperta campagna. Il taxista mi lasciò all'imbocco di una stradina sterrata, probabilmente le auto non circolavano nel borgo. Presi la valigia e m'incamminai… dopo un centinaio di metri tra i boschi, mi trovai davanti a un piccolo casotto, con una finestrella senza vetro, e un buco al posto della porta. Saranno 5 metri quadrati, la mia eredità… la lettera che mi consegnò il notaio conteneva una coordinata: "Entra, gira a destra, terzo mattone dall'angolo sinistro". M'inginocchiai a fatica, con quella maledetta pancia che mi ritrovo e contai, facendo scivolare il polpastrello sul muro grezzo e ruvido, uno, due, tre. Spinsi un po' ma nulla, passai il dito sulla fessura ma nulla, mi alzai innervosito e col tacco colpii il muro, che fece spostare il mattone. Immaginate di essere davanti ad un tesoro tutto vostro, ancora sconosciuto, sono sicuro che vi brillerebbero gli occhi, nell'attesa. Misi delicatamente la mano dentro ma pareva non esserci nulla. Spinsi più in fondo il braccio e finalmente sfiorai qualcosa, forse una bottiglia di vetro, forse piena di soldi o Buoni del Tesoro! Potrebbero valere una fortuna, pensai. Estrassi delicatamente il mio tesoro, senza trovare monete né titoli, solo una bottiglia polverosa contenente del liquido. Mi sedetti sul pavimento, con la schiena appoggiata al muro e le gambe distese, presi il cellulare e chiamai mia madre, esprimendole il mio dispiacere. La sentii sorridere; mi chiese se c'era ancora il suo carretto di legno con l'asinello di paglia, mi guardai in torno velocemente ma non lo vidi tra le macerie rimaste, infine mi disse di cercare un "tirabursun", un cavatappi che, a quanto ricorda, il nonno teneva appeso nel suo ciabot-cantina. Almeno potevo assaporare la mia eredità. La salutai e mi spostai sui palmi delle mani: davanti alla porta/buco, rimasi incantato dalle vigne davanti a me. A chi appartenessero, non lo sapevo, ma di certo erano coltivate con logica e lavorate con estrema cura. Sentii delle voci provenire da fuori; un uomo, sulla quarantina, stava spiegando qualcosa, con ampi movimenti di braccia, ad un gruppo di 4 persone. Mi avvicinai, si stava facendo sera e speravo in un indirizzo dove poter pernottare e ripartire l'indomani stesso. Giovanni ed io ci conoscemmo così; lui, giovane imprenditore agricolo ed io, manager aziendale americano. Mi parlò in perfetto inglese, e ne conosce 7, di lingue. Mi spiegò che anche lui era proprietario di un ciabot; la regione gli aveva dato un premio e dei soldi affinché lo ristrutturasse, per contribuire alla rivalutazione del territorio astigiano e della tradizione vitivinicola del paese. Da 4 generazioni, la sua famiglia si dedica al vino, producendo non solo Barbera, il vino tipico di queste zone, ma anche Grignolino e Arneis.
Io non conosco il carattere di tutti gli italiani, ma Giovanni mi dimostrò un'accoglienza unica, nel suo ciabot nuovo a due piani, con una camera per gli avventori che pernottano nel fine settimana, degustando le materie prime prodotte nel suo agriturismo, e assaporando vini eccellenti della sua cantina. La prima sera dormii come un sasso, ma il giorno dopo conobbi di più sul suo lavoro. Produce 10.000 bottiglie l'anno di vino, un numero esiguo, a favore di una qualità superiore. Vendemmia a mano, poggiando delicatamente i grappoli su cassette di legna bucata e subito portate in cantina per la maturazione e la lavorazione. Il succo d'uva più pregiato viene affinato in barrique di legno di rovere per almeno 10 mesi. Quella sera ne stappò una in mio onore, e sulla terrazza panoramica, restammo a parlare fino all'alba, raccontandomi del mondo contadino, del lavoro duro, che degustavo con avidità. Mi spiegò il dispiacere che si prova nell'effettuare la pratica del diradamento, a maggio, quando molti grappoli sani vengono strappati apparentemente senza cuore; in realtà, ogni strappo dal ceppo non è altro che una sapiente scelta, un sacrificio attuato per ottenere un reale equilibrio produttivo e l'eccellenza qualitativa della produzione. Mi parlò di mio nonno, di quanto fosse devoto verso la vita e la vite; suo nonno Carlo era il miglior amico di Uanen, e pare che lui non si chiami Giovanni a caso, ma porti il nome del suo padrino…quindi Uanén significava Giovanni, in dialetto piemontese. Avevo trovato un amico, e lui aveva aperto la sua casa e mi aveva spiegato la sua vita e il suo lavoro. L'indomani gli avrei portato io un dono, non so quanto valesse, ma era la mia eredità, ed io desideravo condividerla con lui. Prima di aprirla, la guardò bene, quella bottiglia, con aria di chi studiasse chissà quale reperto storico. Disse che il tappo era buono, lo annusò, togliendolo dal tirabursun. Preparò un tagliere di prodotti locali, c'erano pane e grissini di Callianetto, Robiola di Roccaverano, salame cotto di Grana, Mocetta di Crea. Prese due bicchieri dalla credenza, quelli dei nonni Carlo e Uanen, mi disse, che usavano durante le serate insieme. Il vino, di un rosso scuro, all'odore pareva mandorla e legno. Brindammo, ma aspettai che lo sorseggiasse per primo. Guardò nel buio della campagna, e sorrise. Assaporai a mia volta, e lì ebbi un déjà-vu: ero un bambino, e mio nonno mi accarezzava la testa, dicendomi che un giorno, in quel ciabot, avrei trovato un tesoro.
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