venerdì 27 luglio 2012
Il racconto “Francesca” di Jael Silvestri per WINE ON THE ROAD
Jael Silvestri è nata a Chivasso e abita a Settimo Torinese. E’ laureata in lettere e filosofia. Per “Wine on the road”, concorso letterario 2011 di Villa Petriolo, ha scritto il racconto “Francesca”.
Racconto “Francesca” di Jael Silvestri.
Francesca era una bellissima ragazza. Quando la vidi per la prima volta pensai che fosse una quindicenne. Portava un vestito blu con deliziosi fiori rosa e bianchi, un candido merletto usciva dalla gonna a palloncino che arrivava al ginocchio e lunghi capelli bruni con la scriminatura nel mezzo. Solo i tacchi vertiginosi mi avevano fatto sorgere qualche sospetto. Stava sempre accanto ai genitori con cui aveva un rapporto straordinariamente buonoː la madre sembrava la sua migliore amica e non facevano che parlare sottovoce e ridere; il padre la guardava radioso, vigile, protettivo e innamorato. Mi chiesi come fosse passata così incolume dall'adolescenza. Lo stesso giorno conobbi le sue sorelle, due gemelle dalla volontá d'acciaio e dalla lingua lunga e velenosa che avevano cinque anni piú di lei e capii subito che erano la fonte della sua determinazione e della sua eccentricitá. Quando le parlai mi piacque ancora di piú. Ironica, tagliente. Rideva solo alle battute piú raffinate. Scoprii che era appassionata d'arte anche se autodidatta e che nonostante quell'aria di sfida e di indomabilitá per qualche strana ragione non aveva mai partecipato ad una gita che non fosse stata organizzata dai suoi genitori. Dissi che dovevamo assolutamente rimediare e organizzai prontamente un weekend a Treviso per andare a vedere una mostra di Van Gogh. Quella giornata in galleria fu così intensa, ci inebriammo a tal punto di colori e di stati mentali onirici che all' uscita proposi di continuare l'estasi. Entrammo in una cantina. Iniziammo con un giro di Verduzzo e quello e l'atmosfera calda della pietra rassicurante attorno a noi ci sciolsero la lingua e ci aprirono il cuore. Mangiammo assolutamente tutto quello che ci proposero, avidi di sapori inesplorati, accompagnando generosamente con del Prosecco. Perdemmo tutta la compostezza che avevamo indossato nel pomeriggio. Allentammo le cinture, sbottonammo i jeans e iniziammo a raccontare di noi e a ridere, ridere, ridere. Una gioia infinita ci entró nel cuore con un' ondata invadente. Decidemmo di comune accordo e con la massima serietá di rifiutare almeno il dolce perché eravamo satolli, era tardi e avevamo speso parecchio. Ma l'oste tornó. Disseː "Lasciate solo che vi racconti come son fatti i dolcetti zaleti da accompagnare al Passito Friularo". Quando ebbe finito domandóː "Chi vuole assaggiarli?". Ebbe piú successo di Satana quando descrisse il frutto proibito perché tutti e cinque, senza la minima esitazione, alzammo la mano. Lui sorrise e disseː "Bene. Li porto subito!". Rimanemmo un attimo in silenzio dopo che se n'era andato. Poi Josephine, con un' aria perplessa disseː "Ma non ci eravamo messi d'accordo di chiedere il conto?". Iniziammo a ridere così tanto che tutti ci guardarono e alzarono i bicchieri alla nostra.
Appena riuscimmo a mettere qualche soldo da parte andammo a Trieste. Avevo sempre sognato di vedere il castello Miramare, che bianco ed elegante torreggiava sulle rocce a picco sul mare. Ne parlai così tanto che i quattro furono di nuovo al mio fianco e divenne anche la loro ossessione. Diventavamo sempre piú intimi anche se ci frequentavamo poco. Questi viaggi erano la nostra fuga dalla realtá, dall' ordinario, un segreto da tenere per noi. In treno avevo raccontato la storia del castello, perché dicevano che fosse fatato, che chi ci abitava sarebbe morto giovane. Ma solo quando entrammo quella sottile tristezza si attaccó ai vestiti, alla pelle, entró nei polmoni. Piangemmo con Carlotta del Belgio guardando il suo profilo dentro il castelletto, rinchiusa e pazza di dolore per la morte del suo giovane marito morto in Messico. Ci sedemmo sulle scale del porticciolo e vedemmo allontanarsi la nave di Massimiliano d'Asburgo che salutava fiero. Ricambiammo con un nodo in gola, sapevamo che non sarebbe tornato. Dopo un po' di silenzio tirai fuori un libro sgualcito. Lessi "Miramar" dalle Odi Barbare del Carducci. Fu struggente e maledettamente bello. Ci alzammo e scuotemmo i vestiti. Eravamo vivi e non saremmo morti in Messico perció andammo nel giardino tropicale. Non eravamo preparati a ció che vedemmo. Avevamo appena lasciato il grigio e molle languire della vita che si spegne, che una tempesta di colore ci colpì gli occhi. Piccoli colibrì svolazzavano intorno a noi, farfalle variopinte si posavano sulle nostre mani, sui capelli. Dei bruchi sinuosi ondeggiavano sulle foglie, le rane ci chiamavano insistenti dal laghetto, i pappagalli ci facevano gli occhi dolci e i cigni rendevano incantevole quello scorcio di paradiso. La gioia fu piena quando apprendemmo che era stato ricreato anche l'habitat di queste specie delicate sotto la cura amorevole di un giovane scienziato innamorato dell'ambiente. Sentimmo un moto di fiducia verso il futuro. Salimmo sul colle San Giusto e ammirammo dall'alto le rovine del foro romano. A cavalcioni sul muro che circondava la rocca parlavamo del passato storico, del nostro futuro e soprattutto del fatto che dalla fusione delle culture, così come testimoniava la cittá che splendeva sotto di noi, crogiolo di diverse civiltá, non poteve che nascere un arricchimento. Una lezione da portare sempre con noi ma innanzitutto a tavola. Ecco perché scegliemmo un locale bavarese e bevemmo un Gewürtztraminer, un Traminer speziato che un mio amico campanilista chiamava ironicamente sturalavandini. La cannella, i chiodi di garofano, le note di rosa e violetta furono le tappe di un altro viaggio che si compì dentro di noi.
Appresi che Francesca si sarebbe sposata. Era stata un periodo in Puglia e lì aveva conosciuto Marco che avrebbe raggiunto presto. Era arrivato il momento di eleggerla regina del viaggio, il nostro gioco era diventato ormai una serie di Decameron itinerante in cui non la peste ma il ben piú pericoloso male della chiusura mentale ci costringeva, non a rinchiuderci, ma a vagare in cerca di nuove frontiere. Il suo sogno era un Brunello di Montalcino bevuto con le amiche in un' occasione speciale. Io e Josephine decidemmo di portarla a Firenze. Non poteva sposarsi senza avervi respirato l'arte e passeggiato tra le colline toscane. Visitammo la cittá e poi come ogni volta indugiai vagando per i giardini di Boboli, rapita dalla luce serafica, dalla vegetazione che respira all' unisono, dall'atmosfera gaia e distesa. Andammo a passare la serata in un agriturismo. Avevo chiesto un trattamento speciale e molto cortesemente mi era stato concesso. Comprai delle bottiglie di Brunello e del Chianti piú un set di calici che Francesca avrebbe conservato in ricordo di noi e di quella sera. Come disposto, il vino fu fatto decantare e ci fu servito impeccabilmente insieme ad una bistecca alla fiorentina. Avevo invitato altri amici del passato a commentare con noi un calice di buon vino e questa volta leggemmo Neruda, Prévert, Baudelaire, chiuse nella nostra camera. Dopo risate, lacrime, confessioni e complicitá le ragazze si addormentarono. Fu allora che presi carta e penna e scrissiː
A Francesca
C' è che amo la fierezza che esce da te. Quell' incedere da esile regina. Imponi il tuo gusto con lo sguardo ed è tremando che ti si avvicinano, incerti se il tuo pollice sará verso e saranno esclusi per sempre da una candida smorfia sul tuo viso. È vita vedere i tuoi occhi elargire bontá in un verde sereno e un minuto dopo, se un'ombra li attraversa, saettare intorno lampi di un verde inquietante, bella e crudele. Quando vai in giro è come se portassi dietro di te tutta una corte obbediente educata dal tuo modo. Un mondo tutto tuo, un reame che percepiamo pur non vedendo, tutto nascosto dietro di te. Eppure lo sentiamo, grazioso e gentile, fatto di fiori stranissimi e di biblioteche cariche di libri odorosi, di pagine ingiallite da un tempo dalla generositá inesorabile, di parole profumate dall'eleganza perfetta. Sei la profonda sostanza nella giusta forma. L'aura di dolce malinconia, quella brezza impalpabile ma inebriante è ancora su di noi pure se sei lontana. E ci resterá.
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