sabato 21 luglio 2012

Il racconto “Wine on the road” di Lucia Gattone

Lucia Gattone, nata a Roma, abita a Scoppito (Aq). Per “Wine on the road”, concorso letterario 2011 di Villa Petriolo, ha scritto il racconto omonimo. Racconto “Wine on the road” di Lucia Gattone. Ho sempre amato viaggiare, il modo che preferisco è a piedi: bagaglio leggero, scarpe robuste, nessuna meta. Lo preferisco perché mi permette di seguire il mio ritmo interiore, di andare dove mi portano le gambe, di fermarmi dove desiderano gli occhi. Posso salutare chi incontro, annusare un fiore, raccogliere una pietra, cambiare direzione, seguire un sentiero o tagliare per i campi, arrampicarmi su una roccia o fermarmi sull’orlo di un burrone. Spesso incrocio altri pedoni, sempre più di rado, lo ammetto, e mi piace salutarli con cordialità, scambiare due chiacchiere sul tempo, sulla vita, sul paesaggio, prima di riprendere la marcia. Il mio viaggio migliore è quello in cui ho incontrato Duccio, perché Duccio, non c’è dubbio, è stato il mio migliore compagno di viaggio. Il mio viaggio era iniziato in treno e, come spesso mi succede, scesa alla stazione avevo deciso di proseguire a piedi, per gustare meglio gli odori e i colori del luogo in cui mi trovavo. Era il principio dell’autunno, il periodo migliore per camminare, quando la natura risente ancora del benefico calore dell’estate, ma ne ha perso le vampate roventi, i colori sono più accesi e luminosi, più vari ed originali, e l’aria profuma di uva e di mosto. Uscita dalla stazione mi sono avviata verso la campagna e come faccio spesso, ho scelto di passare per i campi, guidata dalla curiosità del mio naso, attratto da un profumo irresistibile. La fonte del profumo era Duccio, non lui personalmente, ma la sua piccola capanna tra i campi, dove stava preparando la più gustosa delle minestre. “Le piacciono le cose genuine, vero?” mi chiese, vedendomi arrivare con il naso all’aria. Duccio era un uomo anziano, nodoso come un vecchio tronco e scuro come la terra smossa, i capelli grigi nascosti da un vecchio berretto di lana, una camicia di flanella a scacchi, pantaloni di velluto a coste e le scarpe di chi ha percorso a piedi la maggior parte della sua lunga vita. Era seduto su una roccia davanti a un focherello di legna sul quale, ondeggiando su un treppiede di pali, borbottava una caldaia di rame che lui rimestava con calma. Alle sue spalle, un piccolo riparo di frasche, tirato su in breve tempo con quel che era possibile trovare in giro, una capannuccia da gioco, di quelle che potrebbe costruire un branco di monelli. Nella piccola capanna, uno zaino consunto e un grosso cesto di vimini coperto da uno straccio. Era così naturale essere lì, che mi ritrovai seduta sulla radice di un albero, a discorrere con Duccio e assaporare la sua zuppa. In pochi istanti eravamo già amici di una vita e discorrevamo con naturalezza di quelle piccole cose di cui parlano i commensali. Fu naturale attendere il tramonto accanto al fuoco, sorseggiando vino da una piccola tazza di metallo smaltato. Ci raccontammo la nostra vita senza farci domande, perché veniva fuori dalla serenità dei nostri discorsi, con la stessa naturale condivisione del nostro pane e della nostra zuppa. Non occorrono particolari: ogni vita, in fondo, è fatta dello stesso racconto, una nascita, un’infanzia, il crescere con dei sogni che spesso non sappiamo avverare, ma della vita di Duccio invidiavo il coraggio di essere quello che aveva voluto, senza sentire il peso di doverne pagare il conto. Un giorno aveva lasciato la sua casa e la sua terra e si era messo in cerca. Era nato contadino e della sua origine apprezzava con convinzione anche la dura fatica, ma sotto quella pelle di cuoio vecchio era anche filosofo, di quella filosofia naturale che è fatta più di azioni che di parole. Aveva scoperto un segreto della natura e aveva deciso di approfondirlo, semplicemente. Per farlo aveva viaggiato in ogni angolo della terra, fermandosi quando il sole tramontava, dissetandosi alle più diverse fonti, nutrendosi di ciò che trovava. Potreste chiamarlo un vagabondo, ma Duccio non lo era affatto. Ovunque passasse si prestava volentieri ai più disparati lavori, da quelli della campagna, assorbiti dall’infanzia, a quelli più nuovi e meno nobili delle grandi città, ma sempre il suo lavoro non chiedeva un compenso, se non quello di aver aiutato qualcuno e aver condiviso un momento. Adesso, finalmente, il segreto che cercava era svelato e continuava il suo viaggio perché non si perdesse. Il segreto di Duccio era nella piccola tazza di metallo smaltato che tenevo tra le mani ed era un segreto così da poco che la maggior parte della gente, pur avendolo incontrato, non lo riconoscerebbe affatto. Duccio amava il vino, ma non era un ubriacone, ne beveva con parsimonia e solo in compagnia perché, diceva, il vino va condiviso. Lo amava sin dai primi germogli dei suoi tralci, nella rotondità dei suoi acini, nel profumo del suo succo zuccherino, nel suo colore trasparente. Amava il vino per la sua magia: “perché davanti a un bicchiere di vino si può discorrere in pace”, mi disse. Amava la paziente fatica del suo mestiere di contadino, la cura dei lunghi filari, la raccolta dei grappoli maturi, l’attesa della trasformazione del mosto, ma ciò che maggiormente amava era l’effetto che l’offerta del vino rappresentava: il piacere del brindisi, la disponibilità alla sincerità, l’euforia dell’amicizia. “Il vino non va mai bevuto da soli”, mi spiegò, “perché la solitudine gli è nemica e lo uccide con i brutti pensieri, e non va mai bevuto con esagerazione, perché la nostra anima non sa reggere la sua verità se non con moderazione. Ma quando bevi un bicchiere di vino con chi è triste, sai consolarlo, con chi è felice, ne condividi la gioia, con chi è arrabbiato, ne mitighi la vendetta. Ogni vino ha questo potere”. Duccio, però, aveva investigato a fondo il potere del vino, alla ricerca del vino migliore, di quello che più di ogni altro fosse capace di esaltarne il potere, “perché un vino così”, mi disse, “può curare l’uomo dal suo male di egoismo” Dopo aver lungamente cercato, Duccio comprese come realizzare il suo vino: “deve essere raccolto con amore, spremuto con sudore, atteso con pazienza, offerto con generosità, gustato con passione” Da allora Duccio camminava per il mondo, chiedendo, nella stagione della vendemmia, un grappolo in ciascuna vigna, spremendo quell’uva variegata in un unico tino, raccogliendone il succo in un’unica botte. Poi, quando il vino era pronto da spillare, riprendeva il suo viaggio per il mondo, offrendone un sorso a coloro che incontrava, donandone una bottiglia in ciascuna cantina, sorridendo beato dell’effetto che aveva sui suoi simili. Non mi credete? Non vi è mai capitato, di bere un bicchiere in una vecchia cantina di campagna e di trovarlo il migliore che abbiate mai assaggiato? Non avete mai provato, dopo averlo bevuto, la sensazione meravigliosa di essere in pace col mondo intero? Come se tutti quei crucci, quelle preoccupazioni, quelle inimicizie piccole e grandi che affannano la nostra esistenza fossero improvvisamente scomparsi? E nel ripartire, col passare del tempo, non vi è mai capitato di desiderare di nuovo di provare quello stesso piacere? E di ricordare solo vagamente dove e perché lo abbiate provato? No? Allora viaggiate ancora, finché troverete il vino di Duccio. Io l’ho fatto, ho camminato con lui per un buon tratto, raccogliendo grappoli nel suo cesto di vimini, ho imparato a farne vino e a regalarlo al mondo e da allora ho amato ancora di più i miei viaggi a piedi senza una meta e il piacere di un brindisi con amici sinceri, quegli amici che sono i miei compagni di viaggio per un tratto del cammino della vita, quegli amici che ho incontrato per caso ascoltando la loro voce e sorridendo al loro passaggio. Quegli amici che sono con me, stasera, davanti a questo camino, intorno a questo tavolo, con questa bottiglia di vino da cui brindare insieme.

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