domenica 1 luglio 2012
“WINE ON THE ROAD” di Cristina Travelli
Cristina Travelli (Firenze, 1963) si esibisce in qualità di performance artiste in Italia e all'estero. Ideatrice nel campo del teatro/danza e dell’istallazione effimera. Nel 2000 presenta al Foyer Européen di Lussemburgo la personale “En dedans” che dà l’avvio a esperienze espositive nell'ambito di gallerie, fiere internazionali d'arte contemporanea e spazi pubblici. Per “Wine on the road”, concorso letterario 2011 di Villa Petriolo, scrive il racconto omonimo.
“WINE ON THE ROAD” di Cristina Travelli.
Viaggiava con uno zaino sulle spalle. Si spostava in treno e in bicicletta. Erano mesi che viaggiava così, senza una vera meta, guidato solo dagli odori dei luoghi. Si fermava a dormire dove capitava. Mangiava in posti semplici. Spesso si rifocillava in qualche taverna che incontrava di strada. Un po' di vino alleggeriva il freddo delle notti. Era partito in primavera. Casa Sole era ormai andata giù, ma il vigneto intorno era fiorente. Anche la nuova vigna era fiorente. Si era fermato qualche giorno a salutare dei vecchi amici. Aveva visitato il loro tartufeto, assaggiato il loro olio, il loro vino, ammirato le promesse del loro orto. Aveva visitato il Duomo d'Orvieto, percorso stradine, sentito l'odore del tufo. I vigneti davano una dolcezza particolare al paesaggio e alle sue crete. Il Castello della Sala era stata una tappa speciale. Un saluto a uno chef e una bocca piena di vino. Una bella cantina da visitare.
Le giornate erano bellissime e qualche disagio non aveva fatto altro che accrescere quella sensazione di andare e di libertà. Era arrivato a Scario di domenica. Una matrona bruna, gli aveva fatto le moine cogli occhi. La sera erano andati a mangiare il pesce da u' Zifaro. L'estate era arrivata in fretta. Gli piaceva succhiare le arance. Le arance del golfo sono sempre dolcissime, anche d'estate. Si era già quasi a metà giugno. Al solito, inseguiva la musica delle bande di paese, il profumo di una terracotta colma d'olio o d'alici sotto sale e il vino puro di qualche artista sconosciuto. L'abbondanza del pane lo aveva attirato a Capitello. Il 12 giugno, il piccolo paese, più o meno situato al centro del golfo di Policastro, era in festa. La processione del pane era di una rara bellezza. L'odore del pane invadeva la strada che attraversava il paesino e nella sua piazzetta, colma di gente, fioccavano saluti e brindisi. È vita un sorso di vino! Arrivavano uomini e donne a piedi coi canestri fumanti dell'aroma del pane, uomini e donne coll'ape addobbata di fiori, nastri colorati e pani tondi, uomini e donne su carrettini agghindati di limoni e pupazzetti di pane, uomini e donne su camioncini aperti esuberanti di pane sul panneggio di un lino candido. Donavano il pane. “Un pane anche per te, ragazzo” gli sorrise una giovane donna, vestita di scuro. Sentì la carezza di un pane. “Grazie, ragazza”.
Il vecchio veniva giù da Pietratagliata con le capre, scendeva giù lungo un canalone, seguendo il corso di un torrentello secco. I bagnanti sorridevano quando, da dietro la vegetazione, le caprette spuntavano sulla spiaggia a brucare un arbusto succulento oppure si arrampicavano su qualche roccia inseguendo l'odore del sale. Lì, sotto un carrubo, si mangiavano il pane scuro, il formaggio, i fichi bianchi. E si beveva un vino rosso poderoso che andava giù proprio bene, pure con quel caldo che picchiava in testa.“Uva reginella. Uva antica come il paesaggio”. Il vino è un profumo che te lo trovi anche così, apparecchiato sul mare. In ciabatte, costume da bagno, occhiali scuri, seduti al fresco, in un andirivieni di gente, il cielo aperto, lucidi di sole, si guardava traballare il carrubo. Davanti a un fiasco di vino, con la fame che ti viene con l'aria di mare, con quel sapore d'antico, non c'era ritegno che tenesse. Le primule di Palinuro. Le calette. Le scogliere. Il monte Bulgheria: nessuna nuvoletta al di sopra della sua cima che annunciasse tempeste. Erano arrivati col barcone. Dalla spiaggia qualcuno zufolava. Il pifferaio magico faceva capolino da dietro il ciuffo d'un cespuglio selvatico. Un brav'uomo quel pastore di capre. Il tavolo di legno scolorito dalla salsedine ce l'aveva messo lui sotto il carrubo. E anche quella cantinetta che c'era l'aveva mantenuta lui. Ci stava il vino, il formaggio e qualcheccosina di attrezzi. Una volta c'erano quelli del Club Mediterranée, poi se n'erano andati senza farne di nulla. Avevano lasciato tre o quattro sassi d'una costruzione in pietra, che era venuta giù quasi tutta, e un nome nostalgico: la spiaggia dei francesi. O è che in quel tratto di mare era naufragato un veliero di pirati di non si sa dove? Nei racconti le cose si confondono, i nomi si fanno antichi, le storie importanti. C'era chi la notte c'aveva dormito, e alcuni assicuravano d'aver sentito la voce del mare trasportare fino a riva i sussurri dei naufraghi senza pace, altri ne avevano ascoltato un canto, altri ancora ne avevano visto uno dondolarsi alla luce di un fuoco, qualcun altro, sfiorato da qualcosa d'indefinibile, si era svegliato di soprassalto nel mezzo d'un sonno profondo, pieno di profezie. Il mare cullava i lamenti degli invisibili e l'aroma soprannaturale del vino le incertezze dei vivi. C'era sempre qualcuno che si lasciava tentare dalla bellezza di quell'angolo selvatico e si fermava lì a dormire sulla spiaggia fino all'arrivo del barcone del giorno dopo. La luce della luna attrae il mare, fortemente. Confusi in quel firmamento, si faceva il bagno. Di notte l'acqua è più calda e l'oscurità si compiace di ogni scintillio, del guizzare d'un pesce, della corsa di una stella cadente. Alla spiaggia dei francesi si arrivava più facilmente via mare che via terra. I barconi dei pescatori durante l'estate facevano su e giù dal porticciolo di Scario alle spiagge: I Gabbiani, La Risima, La Sciabica, infine I Francesi. E viceversa. Ce n'erano di bei posti da quelle parti: le grotte, la Punta Infreschi, Camerota... Se bevi l'acqua di Scario, tornerai per sempre, dicevano i paesani. Lungo quella parte di costa, alle spiagge più belle, si arrivava solo dal mare. La spiaggia dei francesi era la più distante. Dunque i barconi si fermavano lì in attesa del rientro in porto, e i bambini dei pescatori, appresso ai padri, ne approfittavano per fare i tuffi. La spiaggia dei gabbiani al calar del sole era fantastica. I gabbiani, chiusi su stessi, si distribuivano lungo tutta la spiaggia. Le loro grida si sfumavano via via che il barcone si allontanava.
Veniva giù da Pietratagliata. Un brav'uomo quel pastore di capre. Alla vista delle caprette che brucavano tranquille, si era sempre colti alla sprovvista, e un piacere di cose d'altri tempi, una meraviglia strana, come di un mondo perduto, t'entrava negli occhi e ti trascinava là dietro la spiaggia, sotto il carrubo, a ristorare il momento o intrattenere una piccola malinconia. Un tugurio che un brav'uomo chiamava cantina. Il tavolone di legno scolorito imbandito alla buona. L'odore dolce del vino nell'aria. Un brav'uomo quel pastore di capre. T'apparecchiava quello che aveva e ti dava da bere lì al fresco, sotto un carrubo. Il passaggio dei tonni, le grida dei gabbiani, dei delfini in lontananza. Era tornato alla spiaggia dei francesi dopo diversi anni. Il pastore che conosceva non c'era più. Era morto in un incidente d'auto, l'avevano investito, preso in pieno. Prendeva l'ultimo barcone del pomeriggio diretto ai Francesi, a volte mescolandosi ai turisti, ma, più spesso, se ne stava seduto accanto alla cabina di guida, in silenzio. Ai Francesi c'era una rete che separava la spiaggia dagli arbusti. Là dietro c'era ancora qualcuno, suonava la fisarmonica. Un motivetto allegro, di paese. Rimaneva seduto sul barcone a guardare le scogliere e a scolarsi in pace una bottiglia di Falanghina. Dopo qualche sorso iniziava a scriver poesie.
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