venerdì 3 maggio 2013
Capricci del gusto. LAENEO, Nerello Cappuccio in purezza di Tenuta di Fessina, e "U pani câ meusa"
“Per noi cittadini globali la memoria non è solo ricordo del passato, ma anche esplorazione del presente. Non è solo tempo, ma anche spazio. Ci piace saltellare in orizzontale da una tradizione all’altra. Nostra o altrui poco importa in questo mondo senza confini. Purché stuzzichi la nostra curiosità e seduca il nostro gusto nomade, in cerca sempre di nuove frontiere del sapore”
da “Si fa presto a dire cotto. Un antropologo in cucina”, di Marino Niola (Il Mulino, 2009)
Un calice di Laeneo, espressivo Nerello Cappuccio, e una vastella con la milza per trattenerci fuori, in queste giornate ormai estive, sino a tarda sera con un gustoso stuzzichino da consumarsi anche in piedi.
In attesa che sia presentata sul mercato la nuova annata, il 2012, di LAENEO (luglio 2013), segnaliamo un inedito abbinamento capace di evidenziare le potenzialità dell’espressivo Nerello Cappuccio in purezza di Tenuta di Fessina quale calice pepato e goloso, ottimo anche come vino tutto da sbicchierare. Una chicca per enoappassionati, quest’avvolgente rarità dell’Etna, semplice ed immediata, ma “di carattere”, in grado di personalizzare anche situazioni informali, quali uno spuntino o un aperitivo.
“Laeneo. Dioniso attenua la sua inquietudine bevendo vino giovane nelle brume di gennaio. Al crepitio delle braci, nella sera, vino e carne si fan sangue e sentimento, forza interiore, coraggio davanti al nascere del tempo nuovo”.
Il nome di Laeneo, IGT Sicilia, deriva dalla piazza ateniese che ospitava le feste dionisiache di inizio anno, nel corso delle quali si beveva vino nuovo e si sacrificavano buoi. Nel Laeneo sono forti le note ferrose ed ematiche e il carattere è molto espressivo, con sentori di spezie, anice stellato, semi di finocchio e chiodi di garofano, aspetti vegetali di pepe bianco. Queste caratteristiche lo rendono perfetto con la succulenza della carne.
‘U pani câ meusa, italianizzato in “il pane con la milza”, è un esempio di tradizione gastronomica palermitana nel campo del cosiddetto “cibo da strada”. La pronuncia corretta in palermitano sarebbe “pani c’a miévusa”con un allungamento della sillaba “ie”.
Questa pietanza, tradizione esclusiva di Palermo, consiste in una pagnotta morbida (vastella), superiormente spolverata di sesamo, che viene imbottita da pezzetti di milza e polmone di vitello. La milza e il polmone vengono prima bolliti e poi, una volta tagliati a pezzetti, brevemente soffritti nella sugna. Il panino può essere integrato con caciocavallo grattugiato o ricotta (in questo caso il panino si dice maritatu, ossia sposato, cioè accompagnato da qualcos’altro), con limone o oppure semplice (schettu, ossia celibe, cioè solo).
Il meusaru si serve di un’attrezzatura tipica: una pentola inclinata, all’interno della quale frigge lo strutto mentre in alto attendono le fettine di milza e polmone che devono essere fritte solo al momento della vendita. Una forchetta con due denti serve per estrarre dall’olio le fettine fritte, che vanno scolate brevemente e inserite nella vastella, anch’essa calda, e per questo custodita sotto un telo. Il panino va servito caldo, in mano all’avventore, in carta da pane.
La maggior parte dei meusari sono ambulanti e si trovano in luoghi di mercato come la Vucciria. I più famosi sono l’Antica Focacceria San Francesco, che risale al 1834, il cui proprietario ha fatto della battaglia contro il pizzo una coraggiosa scelta di vita, denunciando i suoi estorsori mafiosi, L’Antica Focacceria di Porta Carbone, la Famiglia Basile nel mercato della Vucciria, “Nni Franco u Vastiddaru” in Corso Vittorio Emanuele (angolo Piazza Marina), l’antico e caratteristico “Piddu Messina” nel corso Alberto Amedeo adiacente all’antico mercato del “Capo”. Infine, più recente, Nino u ballerino in Corso Finocchiaro Aprile (già Corso Olivuzza).
L’origine di questo panino sembra risalire al medioevo, quando gli ebrei palermitani, impegnati nella macellazione della carne, non potendo percepire denaro per fede religiosa per il proprio lavoro, trattenevano come ricompensa le interiora che rivendevano come farcitura insieme a pane e formaggio. Cacciati da Ferdinando II di Aragona detto il Cattolico, questa attività venne continuata dai caciottari palermitani. In realtà, il consumo di interiora, particolarmente diffuso a Palermo, è tipico di quelle comunità dove, al consumo di carne dovuto alla presenza di famiglie nobiliari, corrispondeva un utilizzo degli scarti della macellazione da parte del popolo.
A Palermo, accanto al panino con la milza, troviamo per strada anche il panino con panelle o crocchè (cazzille), la pizza-sfincione, le stigghiola, la frittola, il musso, il carcagnolo, la quarume, il polpo, l’aringa, e tutta una serie di pietanze da consumare in piedi: arancine, calzoni, spiedini, ravazzate.
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