martedì 26 giugno 2007

Vangog di Andrea Ciresola

Ogni tanto qualcuno fermava le mani e per pochi secondi distendeva lo sguardo al di là della foglia, oltre il grappolo se grappolo c'era, verso il cunicolo naturale che il vitigno disegnava con la maestria del creatore.
Era una campagna perfetta, di colline e alberi e filari, con un tetto di stelle da far invidia all'universo quando era notte. E dentro quel paradiso la gente coltivava l'uva su vigneti che sembravano di ambra tanto era lo scintillio della natura quando incontrava il sole. E di notte comete, stelle, e luna con i suoi saros, eclissi e mari senz'acqua.
Mai nome fu più azzeccato per quei luoghi e per quel vino. Deve essere stato qualche ignoto viaggiatore del Trecento a pensarci, una di quelle persone così intente a guardare il mondo che si dimenticavano di mangiare, di dormire o di baciare le donne. Quel Marco Polo della pianura veneta deve averlo detto, ad un certo punto, che un luogo così Soave non si poteva ritrovare in nessuna altra regione al mondo.
La storia di Marco Polo la raccontave Vangog, una delle poche cose che diceva quando, rinchiuso da secoli nella sua casa di mattoni, dipingeva la campagna circostante.
Lo chiamavano Vangog quei due poveri vecchi che l'avevano trovato nel campo avvolto nelle pagine della cultura di un giornale di provincia. Il piccolo, abbandonato sotto un filare di garganega, piangeva come solo i neonati sanno fare, con il musetto schiacciato sulle foto di una mostra di dipinti inaugurata in città: Van Gogh e gli impressionisti.
"Chi sono?" chiese lei guardando il giornale fradicio dalla bruma dell'alba. Lui non sapeva cosa rispondere, roba moderna, della città...
Così, il 13 dicembre giorno di Santa Lucia, il bimbo aveva spalancato gli occhi sulla vita guardando un quadro di Van Gogh esposto alla Galleria d'Arte Moderna e per molto tempo i due vecchi non pensarono nemmeno di dargli un nome, ma quando il bambino cominciò a dipingere con il dito paesaggi sulle assi del pavimento di legno, usando fondi di caffè, tuorlo di uova andate a male e foglie di vite schiacciate pensarono di chiamarlo Vangog. Come quello del giornale che gli aveva fatto da balia.
Vangog. Così, tutto attaccato e senza acca.
Lo conobbi il giorno del funerale dei suoi vecchi, che fu anche l'ultima volta che uscì dalla casa immersa nella campagna di quei campi di vite e ciliegi. Doveva avere sì e no vent'anni e la chiesa, così come il cimitero, non gli parvero granchè.
Preferiva la campagna e in questo mi assomigliava, solo che io avevo messo in piedi una piccola azienda che quell'anno aveva prodotto ottomilaseicento bottiglie e lui, invece, dipingeva tutto il giorno.
Foglie, colline, cieli, vallate ruscelli.
"E i campi?" chiedevo, "chi li coltiva?"
Lui scrollava le spalle senza dire parola. La sua casa, vecchia dimora con un piccolo focolare, pavimenti e soffitti in legno, era invasa di quadri il cui unico soggetto era la campagna circostante. Squarci imprevisti, brecce nel muro, pezzi di paesaggio intrufolati nelle stanze.
"Potresti regalarmi un disegno per le etichette delle mie bottiglie!"
"Portamene dodici, delle tue bottiglie!" disse senza aggiungere altro.
Il giorno dopo andai a trovarlo con il vino, ma non si staccò dal suo lavoro, stava dipingendo la parete di fondo del tinello. Aveva spostato tutto. Aspettai invano di parlargli. Un'ora, due... i vitigni fiorivano su quella parete quasi fossero parte della realtà e si confondevano con quelli che si vedevano dalla finestra. Lasciai le bottiglie sul tavolo, sapendo per la prima volta cos'era il mistero.
Giunse la vendemmia e nessuno pensò più a Vangog sedotti come eravamo da quella luce bionda che inonda i campi. Lampi dell'alba su ogni foglia, perle avvolte nel cotone della foschia su un tralcio. Il verde, ormai un ricordo, aveva partorito il giallo e questo ben presto avrebbe mutato in rosso le spirali luminose dell'aria.
Finii presto la raccolta, pochi campi i miei.
Tornai da Vangog, fuori dalla casa sotto la pergola del glicine undici bottiglie avevano ognuna una loro etichetta dipinta a colori tenui, il mio nome e il nome del vino: Nectar.
Nettare degli dei, Vangog conosceva il latino?
Albe, tramonti, zenit, tutto il paesaggio dentro quelle etichette...
"Manca una bottiglia" obiettai.
"Con cosa diluisco i colori secondo te, con l'acqua!" rispose.
Vangog dipingeva con il vino.
Entrando in casa invece... sembrava di uscire nel campo, tanta era la perfezione della sua arte. Strato su strato la pittura cambiava al ritmo dello stagioni, le viti spoglie si caricavano delle foglie di marzo, e poi i primi grappoli. Piccoli. E avanti così fino al silenzio di novembre che irrompeva nella bolgia della vendemmia. La nebbia e l'ultima uva in attesa di santificare il vino. Sullo sfondo un cielo grigio pieno di brividi freddi lasciava il posto al blu dell'estate piena di sudore.
Non ero certo se fosse la natura a guidare le stagioni o se invece Vangog avesse qualche ruolo in quella magia...
Siamo stati amici per un po'.
Poche parole. Cosa aveva dentro quell'uomo?
In ogni caso trovava il tempo per dipingere a mano le etichette delle mie bottiglie.
Mille, duemila, come facesse non so, fatto sta che la cosa fece il giro del mondo e fu la mia fortuna.
Un giorno mi chiesero di portare il nettare degli Dei a New York, per una degustazione che si tenne in occasione di una mostra di pittura iperrealista in un museo.
Andai.
Dicevano che Howard Kanovitz fosse il più grande artista del secolo e i suoi dipinti, muri scrostati, moto cromate appoggiate ad un semaforo, bidoni della spazzatura su strade desolate, effettivamente stupivano, ma non avevano un'anima come le pareti di Vangog.
Mi avvicinai a Kanovitz e glielo dissi.
"Senti un po' italiano" mi disse in uno slang bislacco, "tu hai un vino fantastico ma non capisci niente di pittura... ".
Presi una bottiglia e gli mostrai un'etichetta.
"Vangog dipinge così!" L'uomo impallidì.
In quel quadro di cinque centimetri per cinque, le immagini si muovevano come al cinematografo, le nuvole si rincorrevano come pecore sul campo. Venne l'alba e poi il tramonto. Kanovitz vide l'inverno e la bella stagione. Quello era iperrealismo.
Il museo scivolò nel silenzio.
"Dov'è il trucco?" chiese l'americano.
"Nella testa di Vangog" dissi toccandomi con l'indice la tempia.
"Non ci credo, la pittura è mano ferma, studio, applicazione!"
"Se hai ragione tu" risposi, "ti regalo il mio vino per il resto della vita!"
La settimana dopo Howard Kanovitz era davanti la mia casa, con la sua donna francese al fianco, agguerrito più che mai.
"Prepara il vino per i prossimi cinquant'anni... " disse.
Tutto il paese, che conosceva la storia, ci accompagnò nel tragitto che ci separava dalla casa di Vangog. Corinne, la donna tacco a spillo Chanel 5, sembrava una dea.
Mai quei campi avevano immaginato tanto.
Vangog li aspettava davanti alla porta aperta della sua casa.
L'americano e Corinne entrarono senza salutare, Vangog chiuse dietro di sè la porta.
Era il mezzogiorno del 3 settembre e per tre giorni e tre notti la casa rimase chiusa.
Adesso tutto il paese sapeva cos'era il mistero. Il conclave si sciolse alle quindici e quarantasei del 7 in un mondo fermo e un'apnea indimenticabile. La porta si spalancò e l'americano uscì con un'espressione di ebete. Gli chiesi:
"E allora?"
Non disse nulla, appoggiò la mano destra per terra e questa per magia a contatto con il terreno di erba, fango e sassi scomparve.
Mi chinai, aveva la mano dipinta così bene da confondersi con il suolo.
"Chi è stato?" chiesi.
"Dio" rispose.
Dell'americano si persero le tracce e Vangog da quel giorno divenne più loquace, mi raccontava storie di città invisibili, di donne impossibili, di Corinne data per dispersa nella casa. Di quella donna a volte ne scorgevo il sorriso di perle nel corpo dipinto come un cielo, come l'uva, come ognibendidio.
Vangog morì il giorno in cui esaurì ogni centimetro della sua pelle e nessuno trovò il corpo nascosto dentro i paesaggi della casa.

Racconto di Andrea Ciresola

3 commenti:

Anonimo ha detto...

E' incredibile che questo racconto abbia vinto un concorso. E' frammentario al massimo, la storia è fasulla fino al midollo. mah.

Unknown ha detto...

Sono in disaccordo con l'anonimo che ha lasciato il primo commento.
Trovo questo racconto ricco di fascino e mistero; uno stimolo all'immaginazione del lettore. Quasi una fiaba moderna per "vecchi" sognatori e non solo.
Bravo Andrea!
Annita

Laura P. ha detto...

Sono perfettamente in sintonia col giudizio di Annita su questo racconto. Per me un'opera d'arte deve prima di tutto trasmettere emozioni, creare magia, stimolare la fantasia, prestarsi ad una lettura gaia e leggera che ti lascia come una sensazione di buon aroma in bocca... tutto questo il racconto di Ciresola a me lo ha trasmesso e meno male che la giuria ha visto giusto! Complimenti Andrea e non cambiare mai il tuo modo di essere e di scrivere.
Laura