domenica 27 luglio 2008
Montalbano vs Franciacorta...e ritorno
Per il concorso letterario di Villa Petriolo, edizione 2008, vince il premio del Montalbano un’ulteriore opera, che si è distinta per la particolare cura nel raccontare le ricchezze di un territorio a vocazione vitivinicola: “Terre di Franciacorta” di Raffaele Olvieri.In palio, grazie alla collaborazione dell'Associazione Strada del Montalbano Le colline di Leonardo, un soggiorno per due persone, in uno degli agriturismi che punteggiano le colline del Montalbano, in occasione della serata di premiazione che si terrà il 25 settembre, in tempo di vendemmia, nella Tenuta di Villa Petriolo.
Congratulazioni a Raffaele Olivieri!
Raffaele Olivieri è nato a Cuneo nel 1955. Residente a Passirano (BS), è laureato in Psicologia.
Tra le sue pubblicazioni si ricordano: la raccolta di poesie “Il segno dell’acqua” (1983), il romanzo “Anna e il deserto” (edito da Zanetto nel 2002), “Lorenzo e i fantasmi azzurri” (Compagnia della stampa, 2003), “Ombre a Venezia” (Della Vigna, 2008)
Racconto
“TERRE DI FRANCIACORTA”
di Raffaele Olivieri
Il sentiero punteggiato di robinie apriva, di lì a poco, a un campo. Gli alberi, disposti su un solo lato, seguivano la curva come una matita dà rilievo alle labbra. Dopo la curva il sentiero si perdeva all'orizzonte; subito dopo ecco un declivio, e il prato sprofondava in un altro.
La Franciacorta, terra di vini, è tutta a onde, e ricalca nella sua conformazione geologica l’andatura di chi ha bevuto: strade serpeggianti, avvicendarsi di piccoli valloncelli, tenute, coltivazioni a grano e a mais, vitigni alla francese, formicolii di vendemmie, languori di radure in ombra.
Il sentiero punteggiato di robinie sembrava disposto in modo che il viandante fosse portato a guardare verso il cielo con moto naturale, in una sorta di ascesi. Ogni volta, in prossimità di quel viottolo, parcheggiavo la mia Due Cavalli come di fronte ai gradini di un santuario, e mi addentravo. Ciuffi incolti crescevano alti tra i carriaggi fino a nasconderli. Qua e là, sul terreno, pelli aride di serpi abbandonate dopo la muta. Guardavo ai bordi del campo, alle zolle rivoltate di terra nera, alle stoppie gialle tramortite dalle razzie degli aratri, mentre al centro svettava il mare delle pannocchie.
A destra il sentiero ondulava a collo di drago là dove, oltre il campo, era infoltito da una cresta d’alberi. Zona di serpi, quella. D’estate, mentre il vento frusciava con un crepitio dolce per tutto il campo, le vedevi uscire da sotto i sassi, dalle buche, e subito dileguarsi nel fogliame. Oltrepassati due grandi massi su cui mi sedevo a riposare e a scrivere, si capitava in un punto in cui il panorama è notevole. Le pendici della collina creano ovunque piani diversi, digradanti, e il verde e il giallo bruciato compaiono ora a macchie decise, ora in mescolanze acquatiche, liquefatte.
Anche se quello era il mio eremo preferito, non volevo trascurare altri angoli della regione. Il cimitero di Borgonato, per esempio, con due lunghe file di cipressi conficcate nel terreno come matite, due finestrelle coperte da un tetto con grondaia, incuneate nel muro, da cui immaginavo di vedere affacciarsi i visi dei morti; l’antico borgo dei Berlucchi, la parrocchiale sopraelevata a dominare la ferrovia.
Ogni volta che tornavo da uno di quegli itinerari pregnanti d'ombre, di campi giallo-bruni, di conche sinuose dalle forme di donna, varcavo la soglia della mia casa con un'aria svagata, come da sonnambulo, scivolando direttamente dal sedile della Due Cavalli all'ingresso, senza vedere i gradini.
Più che l'aspetto del residente, avevo lo spirito di chi si sente perennemente in viaggio, di chi conserva intatto il gusto della scoperta. Mi muovevo tra i paesaggi di Franciacorta con altri panorami in mente, ricordi di spazi grandi che aspettavano solo pretesti per uscire dalla dimenticanza. Non mi stancavo mai di girare per quei sentieri soleggiati che di colpo si rabbuiavano tra i boschi cedui, di respirare l’aria densa di fragranze erbacee. Vagavo lungo quelle curve come su piste sonore, nastri magnetici con incise le voci della memoria.
In certi punti i terrapieni si allungavano nel verde come promontori di pietre lisce. Erano simili a monti di Venere, quelle pietre: glabre alcune, altre ricoperte di peluria verde. Dai cespugli di asparagi e dalle buche in cui il lombrico si arrotolava sovente uscivano lepri, altre volte donnole o volpi dalla coda rossa. Attraversavano tutto intero lo spazio di quel firmamento verde, rapide come saette, meteore che sfiorano il mare d'erba increspandone appena la superficie, timorose di lasciare segni.
In quei giorni scavalcavo rivoli d’acqua, facevo incetta di erba cipollina simile a capelli di Medusa, mi inoltravo nei sentieri raccogliendo asparagi selvatici, pagliuzze dorate, bacche vermiglie. Ovunque la grande eco delle campagne, il sole delle vallette, l'intima ombrosità delle radure.
Non esistono piazze, negli insediamenti urbani della Franciacorta, da sempre terra di feudi, di borghi e di residenze estive. Ci sono solo piccoli slarghi in margine al sagrato delle chiese, minuscole sacche d'asfalto subito interrotte dall’intrecciarsi di vie troppo strette, incassate tra le case. Ovunque località, agglomerati sparsi a cui manca l'identità del paese, la calma placida dello spazio aperto in cui ritrovarsi per il passeggio, l'incontro, lo sfoggio dell'abito.
L'infinito è fuori, nella lontananza del paesaggio, nei colori.
I colori dell'autunno, qui, hanno l'amalgama dell'indistinto e l'estrinsecarsi del molteplice. Sembrano numerosi, all’apparenza. In realtà un'unica dominante accomuna i rossi carminio, i marroni, il giallo ocra: la moderazione. Ovunque, sui gelsi, sugli ippocastani, sugli aceri domina la calma della regola, l'imprescindibile certezza che nonostante le turbolenze degli uomini esiste sempre, nella natura, un punto fermo.
Da queste parti, in certe giornate fredde, quando il sole ancora basso all’orizzonte fa scintillare le zolle inumidite durante la notte, capita di incontrare, a gruppi o in fila indiana, i cavalli. Hanno profili che si stagliano nel verde, reso tremolante dalla nuvola densa del fiato. Fantini imperturbabili li cavalcano impettiti facendosi condurre dallo stesso animale: ora li vedi lungo un viottolo, ora su un pezzo di strada asfaltata, lo sguardo in avanti con l'unica apparente preoccupazione di non perdere il cap.
Lungo la strada che da Calino scende fino alle valli di Bornato corrono, tra le viti allineate, solchi di terra. Campi arati, dritti come binari, danno simmetria a un paesaggio così variabile che stenta a fissarsi nella memoria del viaggiatore, e sfugge. Sfugge come quando, alte sopra i finestrini dell'auto, passano nuvole cariche di pioggia: non riusciamo mai a capire quanto siano loro a sfuggirci e quanto noi, immersi nella particolare condizione del viaggiatore, a fuggire da loro.
Quando, dopo i temporali, le prime nebbie autunnali salgono dai campi e offuscano le colline, la Franciacorta si trasforma in un paesaggio mentale, vago, suggestivo come le illustrazioni dei libri. Sono quelli i giorni in cui il grigio uniforme del cielo conferisce a questa terra l'aspetto di una stampa settecentesca. Traspare, in mezzo al porpora e al giallobruno delle foglie, una patina grigia che stempera i colori e li rende omogenei. E ancora, sono quelli i giorni in cui un velo si stende sopra le cose e dilata le distanze; le prospettive si fanno lunghissime, le visioni moltiplicano i punti di fuga.
D'autunno, quando inizia a scolorirsi la campagna, le galline si aggirano fuori dai poderi tra mucchi di sterpi secchi, salgono i vapori dai canali e l’erba umida si tinge di giallo. Ovunque si spandono odori di polenta fumante, di spiedo e di castagne. Varie in quel periodo dell'anno sono le cene, le feste, le sagre in cui la Franciacorta, dolcissima plaga dal punto di vista paesaggistico, rivela la sua brescianità dall'asprezza della parlata, nei modi grevi e sinceri, nelle voci alte che rimbalzano contro le pareti.
Il vino impera, particolarmente in quel periodo; il brut ravviva le cerimonie e si alterna ai bianchi, al novello, ai rossi delle innumerevoli cantine. Nelle osterie prendono forma lunghe tavole piene di convitati. È tutto un profluvio di sapori tannici, erbacei, fruttati, un avvicendarsi di olfatti, di palati pronti a cogliere di ogni vino la minima sfumatura, il ritardo del retrogusto, il corpo.
I convitati, silenziosi all’inizio, diventano sempre più ciarlieri. Le voci si alzano.
“Parlate piano – raccomanda l’oste – Il vino riposa.”
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