giovedì 7 agosto 2008

come si cambia una ruota...


Oggi è la volta di "Come si cambia una ruota", il racconto di Patrizia Chini.


Patrizia Chini
è nata a Roma, dove abita. Insegnante, in pensione dal 2005, scrive poesie e racconti per i quali ha ottenuto: 1° premio "L'acqua è..." (Pisa 2007); 2° premio "Mario dell'Arco 2007" per il racconto "Che cosa prepari oggi a pranzo..."; finalista al concorso "Totus tuus 2007"; 2° classificata a "Le figure del pensiero", sezione Ossimori, Certaldo 2004; finalista "Mario dell'Arco 2008"; finalista premio "Co_scienze", Napoli 2008.


racconto

"COME SI CAMBIA UNA RUOTA"

di Patrzia Chini



Lassù in terra sabina, a 500 m sul livello del mare, a ridosso di un bosco fitto e cupo, c’era e c’è ancora la nostra vigna.
Era autunno, più di trent’anni fa.
Mio padre e mia madre soggiornavano nella casa rurale edificata nei pressi della vigna che, insieme alla casa, alla morte di mia nonna, erano diventate proprietà di mio padre.
Era domenica ed era tutto pronto, strumenti e contenitori, ad accogliere il frutto di un anno di lavoro, grappoli d’uva dagli acini tondi, sodi e succosi, che per il popolo contadino hanno valenza maggiore di oro e rubini. Io e mio marito Giuseppe, liberi dal lavoro, e mio fratello Piero, universitario contestatore, avevamo raggiunto i miei genitori per vendemmiare.
Ero felice proprietaria, da pochi giorni, di una Fiat 126 rossa usata, ma in “ottime condizioni” e con la quale stavo prendendo dimestichezza nella guida che, conseguita la patente, non avevo mai acquisito. Proprio per questo nel pomeriggio, terminata la vendemmia, Giuseppe mi insegnò “Come si cambia una ruota”.
Tirò fuori la ruota di scorta dal portabagagli, l’appoggiò al muro della casa, tornò a prendere il crick, lo inserì, sollevò l’auto e poi svitò i bulloni. Io ripetei ogni azione, ma né io né lui completammo il ciclo … azione superflua!
A sera non accusavamo stanchezza, il giorno era passato in fretta, eravamo stati veloci nel lavoro sia per la dimensione modesta della vigna nuova sia per la facilità con la quale si raccoglie l’uva nei lunghi filari piantati a distanza di quattro metri uno dall’altro. Distanza, motivo di critica “parentale”, che le attribuiva un minore gettito di grappoli… Non so quanta verità fosse in tale affermazione, ma il beneficio e i vantaggi di muoversi in uno spazio maggiore ed ad altezza d’uomo erano impagabili: non c’era confronto con il tempo e la fatica necessari alla raccolta dalle viti fatte crescere con il sostegno di alberi da foglia. La vendemmia è, come tutti i lavori agricoli, faticosa ma è un evento che riavvicina e dispensa momenti di serenità con picchi di allegria o più spesso di rimpianto tra un grappolo reciso e l’altro. Riaffiorava la vita passata e mio padre ricordava quando si trasportava sulle spalle la scala sulla quale poi, una volta appoggiata all’albero, saliva e, ancorato alla scala con la forza delle gambe, vendemmiava. L’uva si “lanciava” nei secchi che penzolavano dai pioli della scala a cui erano fissati con degli uncini. Gli uomini sulle scale e le donne a terra a raccogliere i grappoli più bassi o quelli che non finivano nei secchi. Anche un solo acino a volte si raccoglieva come fosse una gemma preziosa… sì perché ogni chicco ha in fieri quel vino rosso che, in trasparenza davanti ad una fonte di luce, manda bagliori di fuoco come un rubino tagliato a brillante.
Era una magia che tornava a rallegrare gli animi: bisognava aver pazienza fintanto che i saccaromiceti avessero svolto con impegno e competenza il loro lavoro e avremmo di nuovo gustato il nettare più gradito dagli uomini e, perché negarlo?, anche dalle donne.
A cena regnò l’allegria per il lavoro di quel giorno che ci avrebbe a breve ricompensato con il vino novello… ambrosia degna di un convivio di dei.
Era passata la mezzanotte quando ci mettemmo in viaggio per tornare a Roma e pioveva di nuovo dopo che nell’ultima settimana si erano riversati, su tutta la nostra penisola, barili di acqua.
Avevamo stipato quella scatoletta a motore, la 126, di cassette colme d’uva che, per noi e altri parenti, sarebbe stata la frutta della merenda, del pranzo e della cena per molti giorni. La ciliegina su questa torta era il mazzo di rose rosse che mio padre aveva colto per la sorella a cui era ed è ancora molto legato e a cui avrei dovuto consegnarlo insieme ad una parte di uva. Rose che l’avrebbero resa felice e come sempre avrebbe sospirato ricordando che erano le rose della sua mamma.
Arrivati nei pressi di Monterotondo sulla via Salaria, con le rose in grembo per non rovinarle, mi sentivo a casa e, ogni tanto in modo petulante, esordivo con un “Attento! … c’è una curva…” o “l’hai visto quello? Secondo me non si ferma”, mio fratello sul sedile posteriore dormiva sulle cassette schiacciando un po' d'uva qua e là.
Ad un certo punto mi resi conto che l’auto rallentava e accostava al ciglio della strada. Chiesi il perché a mio marito che imprecando mi rispose che forse avevamo bucato e scese dopo aver aperto l’ombrello per ripararsi dalla pioggia.
Guardai dal finestrino: ad un metro dalla macchina dalla mia parte, buio totale ed in lontananza, a qualche chilometro, le luci delle auto che sfrecciavano … era sicuramente l’ultimo tratto dell’A1, autostrada di cui non eravamo assidui utenti come oggi.
Mio fratello continuò a dormire. Dopo qualche secondo tornò Giuseppe, mi confermò che avevamo una ruota a terra e che sotto di noi scorreva il Tevere; dai toni più pacati capii che si apprestava “a far buon viso a cattivo gioco”.
“Scendo e ti reggo l‘ombrello mentre tu…”
Al suo “E’ del tutto inutile bagnarsi in due”, mi accoccolai sul sedile, appoggiai le rose a terra, e mi coprii meglio perché cominciavo a sentire freddo.
Da lì a poco lo sentii di nuovo imprecare … forse si era fatto male? Questa volta Piero si tirò su, si svegliò bene. Parolacce e imprecazioni a non finire ed io, visto che Giuseppe non rispondeva alle domande che urlavo dal finestrino mezzo aperto, scesi dalla macchina incurante dell’acqua e dimenticando il timore di rotolare giù per la scarpata del greto del fiume…
“Ma si può sapere che urli?”
Seppi che la ruota di scorta non era adatta a quella macchina… non entrava! Erano ormai quasi le due di notte, le auto in circolazione erano poche e quelle che ancora erano in strada, correvano e nessuna si fermò ai nostri cenni disperati di aiuto. Allora non esistevano ancora i cellulari!
Mio marito decise di percorrere a piedi un po’ di strada per cercare una casa, un telefono da cui chiamare un tassì, un carro attrezzi… Io, in auto, tremavo di paura perché continuava a piovere e dai telegiornali dei giorni precedenti avevo appreso dello straripamento del Tevere in quel tratto. Mio fratello, invece, visto che non si poteva fare niente altro, cominciò a mangiare l’uva staccando gli acini un po’ qua e un po’ là. Lo rimbrottai energicamente, non si poteva fare quello scempio, se ne aveva voglia poteva prendere un grappolo intero... Continuò a mangiare a suo modo ed io a mangiarmi il fegato anche perché mi accorsi che inavvertitamente avevo calpestato le rose!
Finalmente sazio, Piero, proclamando che conveniva dormire aspettando l’alba, si sdraiò di nuovo sull’uva.
Giuseppe tornò sconsolato verso le tre, e stava per risalire in macchina quando lo vidi animarsi e cominciare a sbracciarsi in larghi gesti per attirare l’attenzione.
Sopraggiungeva un pullman di linea, che proveniva da Teramo, come seppi dopo, e mentre si sbracciava, mi urlò, che se fosse riuscito a fermarlo, se l’avessero fatto salire…
Salì su quel pullman, scese al capolinea che era alla Stazione Termini, con un tassì arrivò a casa quando era ancora notte, si fece la barba e quando non ebbe più pazienza di arrivare ad un’ora decente per svegliare un amico, telefonò a Franco la cui moglie aveva da poco acquistato una 126 nuova.
Verso le sei stavo per cedere al sonno, sentivo l’odore noto del mosto. Era già ora di svinare? (compresi solo dopo qualche ora che proveniva dall’uva schiacciata da mio fratello che già fermentava!) Nel chiarore dell’alba vidi le rose ridotte ad un mucchio di petali ai miei piedi, erano per le strade del Corpus Domini?… Arrivava una berlina nera, era il Vescovo per la festa?
Stavo per impazzire o ero ubriaca?
Stentai a mettere a fuoco ma poi riconobbi Giuseppe alla guida della berlina nera. Scese, cambiò la ruota che aveva avuto in prestito e che doveva restituire prima delle nove. Mi guardò e tutto allegro mi disse:
“Vado avanti io, tu segui me…non ti preoccupare che ce la fai!”

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