mercoledì 6 agosto 2008

il sangue di dioniso


Oggi si festeggia Maria Ivana Tanga, autrice del racconto "Il sangue di Dioniso" per "I giorni del vino e delle rose".



Maria Ivana Tanga è nata a Sant’Angelo dei Lombardi (AV) e risiede a Benevento. Giornalista, ha svolto presso il quotidiano “Il tempo” di Roma il ruolo di critico cinematografico affiancando Gianluigi Rondi; capo servizio Esteri de “Il popolo” sino al 1997, ha coordinato successivamente diversi saggi sul processo di unificazione europea come consulente del Dipartimento Affari Esteri del PPI e del CIME (Consiglio Italiano del Movimento Europeo). Redattore capo del mensile “La Campania”, è stata autrice di testi per la RAI (le “finestre culturali” di Isoradio). Consulente della rivista “Foroellenico”, edita dall’Ambasciata di Grecia in Italia, è attualmente impegnata nella stesura di un saggio sull’antica cucina greca (“A tavola con gli dei”) e di una monografia sulle origini e la storia dei giochi olimpici. Ha pubblicato “I Malavoglia a tavola” per il Leone Verde di Torino. Collabora con la rivista italo-greca “Eureka”, stampata ad Atene. E’ consulente per le tematiche letterarie della rivista on line “Taccuini storici” dell’Accademia gastronomica storica. Tiene una rubrica intitolata “soul food”, dedicata al rapporto cibo-religione, sul sito del Leone Verde www.leggereungusto.it



racconto

"IL SANGUE DI DIONISO"

di Maria Ivana Tanga



Ci era stato detto che Pan era fuggito e che Dioniso era morto per sempre. Eppure, in un angolo del Mediterraneo, in un remoto villaggio aggrappato alle pendici di un monte, abbiamo avuto la prova che il dio del vino e della vite è vivo e vegeto.
Si era a metà dell’estate, quando, accompagnati da Manolis, la nostra guida, giungiamo nell’antico “chorìo” di Perachori. Un grumo di casupole bianche, addormentate nell’afa pomeridiana. Nelle strade vuote, soltanto la sagoma di qualche gatto disegnava la sua ombra nera sul selciato. Davanti ad ogni casa, come a dare il benvenuto, botti e tinozze di legno erano assiepate ad asciugare al sole. Viste in quella luce abbacinante, sembravano delle sculture post-moderne. Reperti di una memoria antica, schegge di una quotidianità non ancora desueta, fossili viventi di una cultura materiale mai rimossa. Manolis ci ha spiegato che Perachori era conosciuto in tutto l’”Eptaneso”, in tutte le “sette isole” ioniche, come il “paese della vendemmia”. In seguito avremmo capito la ragione.
Intanto, nell’aria, portate dal vento, si spandevano le note di una nénia struggente, una nénia velata di nostalgia. Seguendo la direzione del canto, ci siamo ritrovati nella frescura ambrata di una piccola chiesa bizantina. Sull’altare ligneo, proprio come su un’ara sacra, cesti colmi di lucidi grappoli neri ricordavano pagane cornucopie, trofei votivi per il numinoso, peccaminoso dio, figlio illegittimo del grande Zeus. Il sapiente Manolis ci ha spiegato che si trattava della famosa uva nera dei vitigni “Mavrodafni”. E’ da questi vitigni autoctoni che si otterrà il cosiddetto “aghio mavro”, ossia, il “nero benedetto”, orgoglio e vanto dello Ionio greco. Mentre prendiamo posto sull’unico banco laterale, accanto a due donne vestite di nero, l’eco cavernosa di una litania orientale, sensuale e misteriosa, ci fa quasi sussultare. “E’ il pope, padre Krisostomo, che sta per iniziare la celebrazione”, ci spiega la vecchina che siede accanto a me. Dopo qualche istante di suspence, ecco, infatti, comparire dietro l’altare il padre celebrante, addobbato con tutti i paramenti d’ordinanza. Sembrava un trofeo barocco.
Dopo una interminabile funzione gregoriana, tra canti e strepiti, la cerimonia si chiude con una sorta di comunione pagana, in cui tutti i presenti assaggiano un chicco della ormai “sacra” uva. Padre Krisostomo fa un segno di croce su ciascun cestino, salmodiando in una incomprensibile lingua. Ripenso a Pan, alle sacre selve, provo nostalgia per gli antichi canti, per quell’ “oinoé, oinoé”, con il quale le corti dionisiache invocavano il loro Dio, un semi-dio, per la verità, mai riconosciuto dalla religione ufficiale, dalle potenti lobby dell’”olimpismo” pacifico e perbenista. Quant’era distante il monte Olimpo dalle vette della nostra pagana Itaca ritrovata!!
Quando finalmente usciamo dalla chiesa siamo colti dalle prime luci della sera che, dardeggiando con il sole morente, tessevano una impalpabile filigrana di luci ed ombre. In fondo alla vallata, il mare Ionio andava assumendo veramente il colore del vino, come aveva avuto modo di osservare Omero. Mentre, le donne, in processione, con i loro cesti d’uva sulla testa, andavano intonando una canzone dalla memoria antica. Il ricordo corre, inevitabilmente, a quei cortei bacchici, inneggianti al dio “proibito”. “Oinoé, Oinoé”, “lunga vita a Dioniso, signore della vite e del vino”.
Il corteo ha termine nella piazza centrale, dove, in una tinozza “ciclopica”, le donne versano l’uva benedetta, come offerta al grande Dioniso. E’ qui, proprio sotto una quercia sacra a Zeus, che, tra canti e balli, è avvenuto il miracolo. Nella luce lattiginosa di una enorme luna estiva, abbiamo visto la terra sprizzare vino, il sacro succo tramutarsi in sangue, quel “sangue di Dioniso” che ha avuto il merito di avvicinare la Natura alla Cultura.
No, da queste parti, gli déi non sono mai morti. “Oinoé!”, “Oinoé!”.

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