sabato 2 agosto 2008

the days of wine and roses...


"I giorni del vino e delle rose" di Luigi Bellucci è tra i racconti segnalati del concorso letterario di Villa Petriolo. Complimenti all'autore!

Luigi Bellucci è nato a Verucchio (RN) nel 1949 e risiede a Genova. Nel 1957 dalla Romagna i genitori, ristoratori, si trasferiscono a Genova. Luigi dà una mano nel servizio, ma nel 1972 si laurea in ingegneria elettronica e lavora come esperto di elaboratori e consulente. Dal 1995 è libero professionista. Dal 1997 è membro CCIAA delle commissioni di assaggio dei vini DOC e del panel dell’olio e partecipa a numerose selezioni di vini e oli in Italia. Sul sito www.tigulliovino.it, nella rubrica Viaggi, scrive le sue cronache minuziose in Italia e in Europa.



racconto

"I GIORNI DEL VINO E DELLE ROSE"

di Luigi Bellucci



“Cazzo se brucia il vino sulla pelle” e intanto soffiava sulla ferita appena aperta per attenuare il dolore mentre lui con estrema parsimonia faceva cadere ancora qualche goccia di liquido rosso da quella bottiglia straordinaria che suo padre custodiva così gelosamente.
Quel brachetto aveva dei profumi di rosa che salivano dal ginocchio di lei e lo eccitavano ancora di più di quanto non facesse la vista della coscia mezza scoperta sotto la gonna a fiori.

Lei si era alzata particolarmente allegra, forse per il sole che brillava già alto nel cielo o forse per qualcosa di magico che volava nell’aria quel giorno, o forse perché c’era nell’aria un profumo di fiori, di mosto, di vino nuovo.
Aveva voglia di regalare a qualcun altro la sua gioia, così prese la bicicletta sotto al portico, appoggiata alla porta del granaio, vi salì energica e iniziò a pedalare verso la Fratta.
L’aria le lisciava le guance. Era calda e piacevole, si infilava nelle maniche corte del vestito e le accarezzava la pelle, risaliva sulle gambe in movimento e le faceva provare sensazioni quasi dimenticate di quando da bambina aveva iniziato a pedalare con l’aiuto del nonno.
La strada cominciava poi a degradare molto lentamente e la bicicletta aumentava pian piano la sua velocità, ma la prudenza quella mattina non faceva parte dei suoi pensieri.
Sentiva il rumore delle gomme che schiacciavano il pietrisco della carreggiata e quello scricchiolare strano e continuo dava gioia alle sue orecchie e a tutto il suo corpo e la pedalata era sempre più sciolta.
Alla curva del Doccio non ricordava quella strettoia, il rumore improvviso che si avvicinava e aumentava spaventò una innocua biscia nera che se ne stava a prendere il sole sul bordo alto della scarpata e la fece scivolare verso la ruota anteriore che stava arrivando veloce. Fu un attimo perdere il controllo del mezzo e ritrovarsi, dopo uno zigzagare di una decina di metri verso la casa vecchia del Doccio, sdraiata a pancia sotto sul lato erboso della carreggiata, proprio vicino alla rete che separava la strada dall’orto, che stava proprio di fronte alla casa, con il grande noce al centro.
Non era svenuta ma le ginocchia le bruciavano terribilmente e la bicicletta era rimasta in mezzo alla strada biancastra, a qualche metro da lei.

Lui era ancora stanco stamattina. Ieri aveva raccolto uva nel campo tutto il giorno. Forbici e mani nerastre e ceste riempite e tagli e ciocche sulle dita. Non ne poteva più.
Ma non avevano ancora finito e dovevano per forza completare il raccolto in quella vigna perché l’uva era matura al punto giusto e bisognava tirarla via tutta.
La stanchezza lo aveva tenuto a letto un po’ più a lungo. Si era alzato e guardando dalla finestra della camera aveva visto gli altri già giù nella vigna. Un senso di rimorso lo aveva preso mentre si scaldava il caffé che la zia gli aveva lasciato nel tegame sul fornello e si tagliava dal violino una fetta di prosciutto crudo da accompagnare a un pezzo di pane del giorno prima preso dalla madia nel corridoio tra la camera e la cucina.
Non stava pensando a nulla quando uscì di casa per andare giù nella vigna a fare la sua parte.
Si stava tirando dietro la porta verde quando senti un tonfo strano alle sue spalle e uno strano rumore di lamiere sull’asfalto. Si girò di scatto e intravide al di là della rete dell’orto una sagoma dolorante. Per istinto corse lungo i dieci metri che lo dividevano dalla ragazza e la vide con la faccia a terra e le mani allungate sull’erba a proteggersi istintivamente il viso dalla caduta improvvisa.
Capì che era proprio lei ed era quasi imbarazzato ad avvicinarsi per aiutarla ma si fece coraggio.
“Ti sei fatta male?”.
“Cacchio! Se non cadevo stavo meglio!” rispose lei cercando di alzarsi.
“Ahi, ahi, ahi! Le ginocchia!”.
Lui vide per primo il ghiaino della strada sporco di sangue. Le due rotule di lei erano rosse e lembi di pelle sollevata si mischiavano alle piccole pietruzze che la pressione del suo corpo aveva fatto quasi incollare alla carne. Le mani di lei erano messe anche peggio.
“Aspetta, che prendo qualcosa per disinfettarti. Non ti muovere di qui”.
Lei si mise seduta per terra, sull’erba, con le spalle appoggiate alla rete morbida dell’orto. Raccolse le ginocchia ferite vicino al volto e iniziò a soffiare lentamente sulla carne delle palme e delle ginocchia, da cui usciva lentamente il sangue rosso. L’ombra del grande noce la proteggeva dai raggi del sole che ormai era alto nel cielo sopra di lei.
Lui corse veloce verso casa, ma istintivamente non entrò, prese invece la porta della cantina.

Afferrò quella bottiglia di vino rosso sul coperchio di una botte che aveva aperto la sera prima per un assaggio e prese anche i due bicchieri di vetro, quelli piccoli e robusti, col fondo pesante. Corse fuori sulla strada dove lei si stava dando da fare per togliersi i sassolini dalle ginocchia con un fazzolettino a fiori ricamati che portava nella tasca del vestito e continuava a soffiarsi sulle ferite per sentire meno dolore.
La gonna era scesa a metà coscia e mentre lui si inginocchiava al suo fianco non potè non godere della vista di quella coscia bianca che altre volte aveva desiderato accarezzare, ma il primo pensiero andò alla cura delle ferite.

Posò i due bicchieri sull’erba, prese la bottiglia per il collo e versò un dito di vino in entrambi. Afferrò deciso il primo bicchiere e lo porse a lei.
“Bevi che ti farà bene. Ti fa passare la paura della caduta”. Lei prese il bicchiere con le tre dita della mano destra perché il palmo le faceva ancora troppo male.
Intanto lui buttò giù di un fiato il suo. Ne aveva più bisogno di lei perché questo incontro imprevisto e improvviso lo aveva sconvolto, ma era riuscito per miracolo a mantenere il controllo, apparentemente.
Mentre lei sorseggiava timorosa dapprima e poi soddisfatta quel liquido rosso con quel buon profumo di rose che non aveva mai sentito prima, lui si fece coraggio e, tenendo il pollice della mano destra sull’apertura della bottiglia, la inclinò per spruzzarne sul ginocchio di lei, ma il liquido uscì con troppa velocità e andò a macchiare la gonna di lei un po’ sollevata sulla coscia.
“Ma cosa combini?” gridò lei stizzita e stava per alzarsi, ma le ginocchia e le mani le facevano ancora troppo male e lui corresse subito la posizione del pollice e la direzione del liquido che usciva indirizzandolo verso il ginocchio più insanguinato: “Scusami, scusami. Vedrai che ti fa passare il bruciore e poi ti disinfetta anche. Me lo ha sempre detto, mio nonno, che il vino è un toccasana per le ferite”. Anche per quelle del cuore, aggiunse nei suoi pensieri per completare la frase.
Lei lo lasciava fare. Le piaceva quel suo armeggiare impacciato tra la sua gonna, le ginocchia ferite, il suo fazzolettino ricamato che usava come garza, la bottiglia da cui uscivano con grande parsimonia le gocce di quel liquido rosso che lei intanto stava sorseggiando con piacere.
“Me ne versi due gocce sulle mani, che mi bruciano?”.
Lui la guardò negli occhi e mentre le gocce di vino scivolavano sulle palme rosse e ferite le trasmise tutto il suo amore.
Senza staccare gli occhi uno dall’altra dalla bocca di lei uscì un’altra richiesta: “Me ne versi ancora un dito?”.
Non si fece pregare, riempì prima il bicchiere che lei teneva in mano e poi anche il suo.
Sempre guardandosi negli occhi ognuno centellinava quei sorsi che davano piacere al naso, sollievo alle ferite esterne e interne, incantavano le papille in bocca e portavano un calore nuovo giù per la trachea fino allo stomaco.
Istintivamente i bicchieri furono posati sull’erba, i visi si avvicinarono lentamente e le labbra si incontrarono calde e profumate di rosa. La lingua accarezzava dolcemente la bocca dell’altro mentre la mano di lui saliva lenta a sollevare la stoffa a fiori della gonna ampia in cerca della carne calda sui fianchi.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Il vino come unguento, pomata che lenisce il dolore, elisir che accompagna l'amore. Questo è il racconto che preferisco, i miei complimenti a chi lo ha messo su carta. sto seguendo il percorso del concorso a ritroso, bella iniziativa. la prossima volta partecipo anch'io. saluti a tutti, diana.

silvia ha detto...

grazie Diana, ti aspetto alla prossima edizione del concorso, allora!
a presto.