mercoledì 27 agosto 2008

nora, il trabucco.nora


Il trabucco.
«La macchina pareva vivere d'armonia propria, avere un'aria ed un'effige di corpo d'anima»
Gabriele d'Annunzio



Alessia Dimiccoli nasce a Canosa di Puglia il 27 agosto 1991, ha diciassette anni e da quando ne ha quindici scrive poesie. Quest’anno ha partecipato ad un corso di scrittura creativa organizzato dal Comune del paese in cui vive, Barletta, curato dalla scrittrice Flavia Piccinini, vincitrice nel 2005 del Campiello Giovani. Inizia così a scrivere racconti e a partecipare a diversi concorsi.

Per festeggiare Alessia pubblichiamo il suo racconto "Nora, il trabucco. Nora", in concorso per "I giorni del vino e delle rose".



Racconto

"NORA, IL TRABUCCO. NORA"

di Alessia Dimiccoli



Bevve un lungo sorso di vino. Negramaro di Puglia, un rosso intenso.
Il vento, Lecce, Teresa.
Bevve ancora, chiuse gli occhi e gustò ogni singola goccia di quel nettare sublime.
Sedere in poltrona e bere del buon vino in compagnia di qualche ricordo stagionato dalla polvere, era il suo hobby preferito.
Il citofono suonò e non ci fu bisogno di alzarsi per andare a rispondere; Lucia era ancora sveglia e avrebbe fatto per lui.

Giulio aveva ormai raggiunto i settantacinque anni. I suoi capelli erano bianchi, la pelle invecchiata dal fumo e dalle primavere turbolente. Aveva amato tanto e ne portava i segni: il viso pareva disteso in un’ espressione armoniosa e gentile.

“Sono arrivate queste”. Lucia fece il suo ingresso nella camera con due rose.
“Non c’è nessun biglietto, nemmeno un’iniziale”, stupita e curiosa.
“Grazie, puoi andare. A domani.”

La tranquillità che l’uomo tentava di ostentare di fronte ad una simile sorpresa, crollò non appena Lucia lasciò la stanza; quando si diventa vecchi è difficile controllare la violenza di certe emozioni: gli occhi tendono alle lacrime, la voce si strozza, il volto arrossisce, le mai tremano, le gambe non reggono più il peso.
Giulio rimase sveglio tutta la notte. Il profumo di quelle rose l’aveva inebriato, aveva annebbiato qualunque tipo di riflesso razionale. Erano di un rosso conosciuto, intenso.
L’ essenza di donna che emanavano pervase tutta la stanza, impregnò le pareti, i tendaggi; tutto parve assumere una forma diversa, un colore diverso, in una trasformazione che mitigò persino le rughe più severe di Giulio e la pelle strappata di quel divano che non usava più. L’olfatto non era in grado di percepire altro odore: i sensi, compreso il sesto, erano rapiti da questa percezione che aveva il sapore dolce e fresco di un’estate mai dimenticata.
Riguardò quelle rose all’infinito cercando di trovare un minimo indizio, un traccia invisibile della loro provenienza. Invano.
Erano le cinque del mattino, quando ubriaco di vino e di profumo, stremato dalla bellezza di quei fiori, si addormentò sulla poltrona.
Sarebbero stati gli ultimi giorni, i giorni del vino e delle rose. Ne era quasi consapevole.

Fu svegliato dalla voce di Lucia che, vestita di verde, gli portò la colazione accompagnata da una busta gialla: era arrivata giusto qualche momento prima. Aprirla era inutile, persino leggere il mittente era energia sprecata.
Giulio diede a quello che era un referto medico uno sguardo distratto e quasi annoiato.
Richiuse la busta dopo qualche secondo. Aveva gli occhi bassi, ma sapeva di trovarsi sotto lo sguardo interrogativo di Lucia.
“Si Lucia, ho meno di un mese di vita. Probabilmente domani mattina non ci sarà bisogno di svegliarmi, sarò altrove. Fino in fondo, ho vissuto fino in fondo. Sei rimasta solo tu a guardarmi morire. Si sono tutti spenti prima di me, soffocati dalla routine. Sei l’unica spettatrice che fino all’ultimo atto mi vedrà recitare la mia parte. Sono stato un bravo attore?”
“Signor Giulio, che cosa sta dicendo?”, la donna aveva a voce spezzata e i lineamenti piegati in un espressione attonita.
“La verità, solo la verità. Da quanto tempo so di avere cellule impazzite che mangiano il mio cuore giorno per giorno? L’hai capito anche tu. Fare finta di niente, giocare a vivere tranquilli le ore che mi separano dalla bara, è stato conveniente, per me e per te. Vuoi detestarmi perché ti ho nascosto tutto? Faceva parte del copione. Io non ho paura del buio, non ho paura di chiudere gi occhi e non poter sognare”. Giulio si zittì improvvisamente come se gli mancasse la voce per continuare.
Lucia lo guardò come non aveva mai fatto, pensando a tutto il bene che voleva a quell’uomo.
Non si abbracciarono. I gesti mancati sono sempre i più belli.

Le rose arrivarono per tutta la settimana successiva, due, ogni giorno.
Rosse, splendide, perfette.
Turbarono le notti di Giulio, animarono i suoi giorni, invecchiarono il suo cuore.
Riuscì a essere felice. Forse lo era sempre stato. O forse non aveva capito niente della vita.
Domande non aveva più.
Aveva un solo ultimo senso, l’ultima ragione per scrollarsi di dosso il sonno e mettere i piedi fuori dalle lenzuola: le rose, che non mancavano il tacito appuntamento giornaliero.

Erano passati otto giorni dall’arrivo delle prime rose. Le rose del terzo giorno cominciarono a far cadere i loro petali.
Le otto.
Le otto e tre.
Le otto e sette.
Le otto e ventuno.
Le rose quella sera non erano ancora arrivate.
Prese del vino: Primitivo di Manduria.
Brindisi, l’acqua limpida, Maria.
Alla faccia del cuore e del suo maledetto cancro ne bevve quasi mezza bottiglia.
Le rose non arrivarono.
Scelse un disco.
“Suzanne regge lo specchio…”, cantava la voce graffiante di De Andrè. Giulio reggeva il suo bicchiere di vino rosso; pensava ai fianchi caldi di Maria, pensava che non era stata la donna giusta, pensava alle notti passate con lei, con le sue mani tra i capelli lunghi di un Giulio ventenne e sempre sognatore.
No, Maria no. Non era stata la donna giusta.
Quella notte Giulio sperò ardentemente di non morire.

Ancora un altro giorno d’attesa. Quasi mille e cinquecento minuti.
Le rose non arrivarono e non sarebbero arrivate.
Otto e tredici. Rosso Barletta, invecchiato, tendente all’arancione, armonioso, asciutto.
Nora, il trabucco.
Nora.
Lei arrivò dopo il secondo bicchiere.
Il suo profumo era in quella camera già dal primo.

Aveva cinque anni meno di lui, i capelli grigi raccolti in una pettinatura severa. Gli occhi splendevano di una giovinezza ormai passata ma non sepolta sotto macerie di rimpianti.
Il vestito rosso, gli occhi nocciola, il collo e il viso coperti di rughe.
La vecchiaia aveva dissolto la sua perfezione, ma il fascino no.
Era la Nora che si aspettava.
Era forte, sicura e intelligente. Non mancava occasione per farglielo pesare.

Si guardarono a lungo senza osare parlare.
Lei si versò del vino, ne bevve un bicchiere, sorseggiandolo piano piano. Aveva sempre bevuto con prudenza, temeva di perdere il controllo delle situazioni.
Si riconobbero, capirono che si aspettavano da sempre. Ebbero la certezza di essersi cercati per una vita intera negli occhi dei loro mariti, delle loro scappatelle, dei loro figli, e poi dei loro nipoti.
Furono sicuri di essersi inseguiti tra romanzi letti e riletti, tra film rivisti centinaia di volte, tra fotografie in bianco e in nero e tra quelle a colori. In treno, in aereo, negli alberghi dei loro viaggi per il mondo avevano rincorso il ricordo di un’estate e la voglia di una vita insieme.

Nora si avvicinò, adorava fare il primo passo, adorava sorprendere. Giulio la aspettò, sicuro che sarebbe arrivata. Quando le mani della donna gli furono sul viso, leggere, Giulio chiuse gli occhi.
Aveva una folle paura di morire.
Le loro labbra si sfiorarono come quelle di due ragazzini al primo bacio. Il contatto fu timido, silenzioso. La pressione dell’uomo scese sino alla minima: il cuore era sempre più debole.

Nora finalmente parlò.
“Ti sono piaciute?”
“Aspettavo solo te.”
“Sei il solito sognatore.”
“Sei Nora, non ho mai cercato di più.”
“Non dovevi scappare in America.”
“Sognavo un sogno di seconda mano.”
“Hai amato il mio ricordo.”
“Ho amato i miei figli perché sapevo che stavi amando i tuoi.”
“Sei sincero.”
“Sono vivo solo perché mi hai cercato.”

Giulio baciò lentamente le labbra della sua Nora, le toccò dolcemente i fianchi.
Nora amò i suoi gesti impacciati, le sue mani sudate. Amò la sua sicurezza svanire effimera.
I battiti rallentarono. Quaranta, trentotto, trentasei.
Giulio versò il vino nei bicchieri.
“Sei pazzo”. Le parole di Nora rimasero sospese nell’aria, inutili.
Bevvero.
Trentaquattro. Trenta, ventisette.

Nora sfiorò le sue labbra con la punta delle dita.
Ventitré. Venti. Diciassette.

Dieci. Otto. Cinque.
Un bacio, il più bello.
Quattro. Tre.
Chiuse gli occhi, prese la mano della sua donna.

Due, due.

Il sangue si fermò, i nervi si distesero, i muscoli si rilassarono. Morì.
Un gesto improvviso di Nora fece versare quel che rimaneva del vino.
I petali delle rose cadevano, lenti.

Tutto era fermo, persino i singhiozzi malinconici di Nora.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

così imbevuto di nostalgia questo bel racconto...complimenti all'
autrice che è riuscita, nonostante la giovane età, a restituirci i sentimenti di chi ha tanto vissuto. potere dell'immaginazione. brava.
sara f.

silvia ha detto...

l'attesa di un ultimo incontro, così importante da conservare la vita. brava alessia, s'è letto tutto d'un sorso...