martedì 23 settembre 2008

lei. musa. rosa. madre.


Un altro bel racconto per "I giorni del vino e delle rose" è quello di Melissa Poli.

Melissa è nata a Firenze, dove abita, nel 1982.
Cresce al mare.
Studia in città.
Frequenta l'Istituto Statale d'Arte, diplomandosi nel 2001.
Dice di sé: "Iscritta al Corso di Laurea Progeas - Facoltà di Lettere e Filosofia - nel 2007 si laurea, con apparente soddisfazione. Oscilla tra stage e svariati lavori, tutti vissuti con entusiasmo. A tutt'oggi è novella "paroliera" e artigiana, nonché indomabile bisbetica".


Racconto

"I GIORNI DEL VINO E DELLE ROSE"

di Melissa Poli



Camminava, solo.
Una strada buia.
Eco dei suoi passi.
Con il fiasco impugnato nella mano sinistra a renderlo diverso, e una rosa di un rosa intenso, stretta così forte che lacrime di sangue piovevano lasciando una scia, l'uomo perso nella città addormentata cantava un pianto d'amore.
L'amava, con profonda pietà e passione l'amava, ebbro di lei, sospeso in un tempo assetato di quel nettare, tra visione e magia, nel presente metafisico, l'irrazionale vissuto, nello specchio di porpora dove trovarne il volto d'incanto.
Era così bella, vitale, profumata d'uva, chiusa nell'acino di un pensiero appeso al cuore, dove un grappolo di sogni si scioglieva dentro al bicchiere fedele, in un surrealismo dove cogliere distorti gli oggetti d'uso comune, anonime certezze dalla non essenza.
La lucidità portata dal sole, aperta come un bocciolo al primo sbadiglio, ostacolava i non ricordi.
Ricordi immaginati.
Memorie dell'irreale.
Ricordi.
Non ricordi.
Che.
Erano.
La sua.
Vita.

Non visse mai tanto intensamente come quella notte, forse, col timore dell'incontro impossibile affogato nella giara di trascorsi senza memoria, dove trafugare sorsi di rubino per il divenire rubicondo del volto ancora pallido.

Nell'attesa di evocare il non vissuto di lui dimentico, coi capelli fulvi bagnati dal sole, un'ansia angosciante era il giorno, nemico da vincere per la vittoria al crepuscolo, dove una forma di vetro avrebbe creato un ponte sul fiume di tramonto da percorrere coi fantasmi del passato, pezzi di storia raccolti nella piazza, dopo il lancio della bottiglia vuota, e l'animo pieno di linfa.
Quella sera, a portare la gioia condivisa da una luna amica fu il tempo di una vendemmia, scivolata in tini che accolsero uve pigiate a fermentare, ormai vuoti e marci e perduti in cantine umide.
Sui gradini della grande piazza, con le mani stanche, i piedi scalzi ad abbracciare le pietre fredde e sporche, l'ultimo fiume rosso carminio si stemperò in uno sguardo di fuoco, gli occhi si chiusero e il passato fu presente.

E il presente del passato.
Fu.
Settembre.

Una fotografia in bianco e nero, un quadrato di carta con gli angolini consumati dal tempo a dare vita alla stagione delle foglie perse su sentieri di perché.
Foglie calde, la cornice del volto dai lineamenti assorbiti, ricreati nell'intimità di una fisionomia delle emozioni.
Foglie lucide, immerse nel dono di riflessi ad una pelle dorata, nello sfondo di terre inaridite dagli inverni di un amaro poi, col palato acido a far nascere il rigetto.
Ma ancora, quello scatto sospeso in un chissà di memorie del poi non dava traccia alcuna, o soltanto un'orma sconosciuta.

Così, nella notte illuminata dai lampioni alti a lanciare nello spazio ombre di luce.
Fu.
Settembre.

Una campagna ad accogliere l'autunno, nel saluto di una calda estate.
Il casolare, spesso disegnato con la penna di legno sul foglio di terra appeso nell'aia, davanti al fienile, scrigno pieno di tenera familiarità e sapori intensi persi nei filari a completare il quadro, definire un paesaggio che ribolliva e impregnava di sudore leggeri stracci per coprire la pelle.
Tra le serpi leggere, i signori della terra, vicini a Dio come i santi più ebbri.
Braccia forti, abbronzate, braccia di chi non ha molto a cui pensare se non al lavoro, e l'amore è la carne, e al platonico è ignorante, e si sveglia all'alba ancora con le labbra rosse dell'ultimo bicchiere, prima del riposo.
Fu la raccolta più ricca, e fu l'autunno più felice, sorrisi e pacche sulle spalle tra quegli uomini contenti nel benedire il frutto della vita e dell'ebrezza, nel rendere grazie al loro santo protettore Bacco, sceso tra i mortali nel soffio di un vento tiepido, per sussurrare protezione e coraggio, per riempire i calici nel brindisi immortale.

E non molto lontano dai vigneti.
Quante rose.

Rose di un rosa intenso, ancelle delle viti, rose come scudo, rose pronte per un sacrificio, nel segnalare il pericolo di possibili attacchi estranei.
Poiché la regina dei fiori era, col Dio del vino, protettrice e amante segreta, coltivata con cura e fini misteriosi da uomini ubriachi di antichi saperi.

E non molto lontano dalle rose.
Le donne.

Ognuna diversa dall'altra, ognuna pronta a divenire fuoco rubato chiuso in mani grandi, pesanti, ruvide, ognuna in attesa di sbocciare, di essere rapita e sigillata nella goccia d'ambrosia per dissetare l'arsura.

Le donne.

Sostavano in cucina, tra impasti di sapori da sentir bruciare nel petto, col pensiero di quelle mani adesso impegnate nella resa del succo d'amore, più tardi sentite ad afferrare i fianchi, scivolando lente sulle cosce per entrare nel desiderio.
Quanti figli cresciuti nel ventre oscuro, quanto sangue disperso in nome di vite mai vissute, quanta paura in quel dolore della carne, il terrore di percepire lento lo spegnersi della fiamma ardente del proprio fiore.

Ma nel giorno di festa.
Quelle rose di vita dai capelli di petali.
Si ritrovarono.
Dimentiche.
Assorte in un tempo fermo per raccontare speranze, disegnare un domani inimmaginabile, chiudendo in un sorriso la paura di una miseria a dissolvere i colori.
E tra le forme, i seni, l'eleganza di movenze femminili e materne.

Lei.

Sola, nel giardino delle sue intimità.
Pura, la testa raccolta in vergini pensieri.
Non sapeva, ed era talmente bella avvolta nell'ingenuità di uno scialle azzurro come le perle custodite nelle palpebre rosa antico.
Osservandola, ogni parola pronunciata dai suoi profondi silenzi era un'essenza di labbra succose da sciogliere sotto la lingua per l'estasi del senso divino, il gusto.
Non sentiva ancora, quella vita dentro, la tempesta a sconvolgere i quieti ritmi ormonali, portando scompiglio tra gli organi addormentati.

L'unica cosa che le risvegliava i sensi.
Quell'odore.
Forte.
Intenso.
Di.

Vino.

Le entrava nel respiro, deglutiva e la gola era una discesa di piacere verso il cuore, nel petto pieno di sensualità ad attendere un sorso ribelle per scaldare le ossa.

Quando la consapevolezza della vita altra nel prendere forma le raggiunse l'animo timoroso, la privazione del ruscello di passioni portò un'ossessione durante sonni lunghi e pesanti, ansie e irrequietezze di sogni premonitori, mentre un battito soave donava piccole scosse al suo utero non più solo.
E quell'angoscia si fermò sulla pelle ancora da farsi, tra sponde di anche e boe di capezzoli.
Si posò lieve e decise di non svanire mai, impermeabile e potente come il nocciolo bianco della sua anima, capace di illuminare il buio nell'ultimo grido di esultanza prima del sonno eterno.

Nacque in una notte di Maggio, nel letto della stanza più grande del casolare, quella con le tende rosse impregnate di illusioni ed il cielo aperto su di una volta di speranze stellate.
Nacque e nel nascere le tolse la vita.
Fu.
Il sacrificio della musa sull'ara solenne, la catarsi lenta verso il viaggio dello spirito nel regno di Bacco, la ritualità riscoperta per liberare entrambi dal dolore.
Il desiderio di una donna.
Di una musa.
Musa materna dalle tinte ramate, intenta a disperdere il liquido rosso da libare, nel totale stato di purezza.

Lei.

Sua madre.
Era bella mentre volgeva un ultimo sguardo al cielo, il fiore bruciava, andava spegnendosi, e il sogno per il poi era la sua anima ad accompagnare il figlio, sempre, proteggere il suo cuore, ferma sulla pelle nel per sempre di una sfumatura di rubino.

Lui.

Il bambino.
Nacque.
Sano, bello e forte.
E con lui, il disegno voluto dall'ossessione di sua madre, sulla mano sinistra, dove sempre nel suo per sempre avrebbe impugnato la brocca colma del colore di una voglia.
Una voglia sfumata di porpora.
Una macchia strana, a farlo diverso.
Un'ombra ad accompagnarlo nelle notti di solitudine, una rosa di fantasia stretta con forza al non ricordo di un suo abbraccio, lo spirito di una bellezza sfiorita che percorre ancora oggi le strade di lui e lascia lacrime di sangue per raccontare i suoi passi, in attesa del momento nel tempo in cui la morte gli sarà amica misericordiosa capace di condurlo verso l'amata per il brindisi di grazia.

Lei.

Musa.
Rosa.
Madre.

Sua.

Goran Bregovic, Lullaby

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