lunedì 22 dicembre 2008

i giorni del vino e delle rose di luca scialò


Edouard Manet, Il bevitore d' assenzio, 1859


Tanti auguri di buon compleanno a Luca Scialò, autore del concorso di Villa Petriolo edizione 2008.

Luca Scialò è nato Castellamare di Stabia (NA) il 22 dicembre 1985 ed abita a Genova.
Ha frequentato il liceo scientifico M.L. King di Genova, conseguendo il diploma nel 2004; nel 2007 ha ottenuto la laurea triennale in Filosofia, con una tesi sul rapporto tra la filosofia di T. W. Adorno e quella di Jacques Derrida. Dopo varie esperienze professionali nel settore turistico per servizi di accoglienza ed ospitalità, tra cui il servizio di guida turistica per gli spettatori stranieri dei Giochi Olimpici Invernali di Torino 2006, da gennaio 2008 lavora come cuoco presso la “Caffetteria Dei Ronchi” a Torino.


Racconto

"I GIORNI DEL VINO E DELLE ROSE"

Di Luca Scialò



Lacrima, abbondante e languido… viscosità che solca tutto il bicchiere, al suo passaggio solenne il vetro e la collina che racchiude come il riflesso di un acquarello che si arrende alla gravità si sciolgono, lenti come gli addii; è lacrima molle ed irridente come di femmina rotonda che mi siede qui di fronte, che il riso muove al pianto quando le sputo addosso poche parole piene di vino rosso. In genere il primo bicchiere lo bevo solo; oggi questa donna mi offre la compagnia dei suoi fianchi, ed io a lei la nobiltà di questo Montepulciano. Alla sua preoccupazione per l’aver introdotto nel suo corpo splendido il rosso demonio alcolico, io rispondo con la più sguaiata delle risate. La signorina forse è troppo giovane per sapere che nel suo peraltro davvero splendido corpo è presente già da sempre una quantità di alcol, le dico; è per via di certe benigne creature, il Signore le tenga in gloria e considerazione, che producono durante la loro silenziosa respirazione nel fondo del nostro stomaco una sostanza di scarto alcolica, molto alcolica, signorina, io la rassicuro. Lei sta quasi per lasciarsi rassicurare fino in fondo, quando un’ombra nera come di nube nel cielo di ferragosto mi tira per la coda dell’occhio e mi vortica sul braccio; spiego alla signorina che la lascio ma solo per oggi, solo per un attimo, le dico, è una creatura splendida, davvero un bell’esemplare di essere umano, le giuro. Non la rivedrò, tuttavia il curato si è già seduto al tavolino ed io sono ancora sulla terrazza: il suo tempo è prezioso ed io per nulla rinuncerei alla parte che lui accondiscende a dedicarmi, quella in cui egli solo sa restituirmi al mio senso di colpa, per poi lasciare alla mia fantasia il modo di alimentarlo ancora. Lo hai fatto nuovamente ieri?, lui sa che io l’ho fatto, e sa anche che mi fa piacere che me lo chieda. Ebbene sì l’ho fatto!, ma prima permetta, beviamo! Il curato beve solo il Chianti delle nostre colline, ed io con lui, assecondando quest’esclusività fatta di retrogusti secchi di cuoio e tannini smodati ed avvolgenti sulla lingua ormai sfinita e vinta; l’ho fatto dieci volte, una di fila all’altra… Ed eri solo?, la voce del curato che domanda è acida come il sentore di Chianti che stringo fra i denti, eppure priva della sua limpidezza, del suo austero equilibrio: manca di godibilità. E quindi io lo avverso, Sì, l’ho fatto dieci volte ed ero solo, e mi ha visto solo Dio: dice che troverà il coraggio di perdonarmi?, adesso mi sono tutto animato d’un tratto; Lui ti ha già perdonato!, il curato si erge fiero della sua misericordia su una nube di sputi quasi invisibili. Gli errori più belli sono quelli che fai a tu per tu con Dio, troverà sempre il modo di scusarti; Lui ne sa una più del diavolo!, esclamo beffardo. Allora il curato ride e fra noi per un istante c’è solo il vino, poi si alza, va a pagare e se ne va.
Io ho bisogno di tornare a bere per riavermi della recente emozione; chissà come fanno i curati a parlare ogni volta con il cuore in mano non intingere la lingua nel potente inchiostro cinabro se non una o due volte al giorno, e sapendo per di più che le loro labbra andranno incontro al sangue di un uomo-Dio, che urla di misericordia e non concede al loro naso lungo di potersi rilassare a pieno nel silenzio del calice dorato.
Un Morellino!, e subito mi accorgo di aver gridato troppo forte. Permetta ch’io disturbi il suo meriggio, ch’io lo vada imporporando senza tregua, con le macchie d’una prosa fatta in versi, la promessa che compaia la Poesia! Niente è stato mai più triste di un poeta sconfitto che si scopra l’unica fonte di arida siccità in mezzo a terre ubertose e prospere; oggi di lui non ne voglio proprio sapere, sento un desiderio ardente e disperato di restare solo almeno per il tempo di un bicchiere: Va’ via ignorante creatura!, tu parli sobrio di poesia, bestemmi senza conoscere neppure Dio! Il mondo che più piccolo ci restituisci allorquando sfugge alla claustrofobica asfissia che gli infligge la tua bocca, non sa più esprimere emozioni, così costretto tra ipallagi e metafore, tra ellissi, anacoluti ed alitoti…so che sto esagerando ma vado avanti senza guardarmi alle spalle; Le figure di una retorica più dolce le trovi in un bicchiere, lascia che io ti dica dove il rosso di questo Morellino si indurisce e prende forma all’occhio come una cascata di morbidi rubini, come il rosso stesso sia tagliato in un rubino; lascia che ti racconti l’intrigo matura di frutta al naso che invade le narici illudendole di poter riconoscere la prugna, la ciliegia forse…la Poesia si fa poi muta in onore alla Poesia stessa quando in bocca tutto il rubino che aveva visto l’occhio ed annusato il naso si trasforma in morbida resistenza succosa e saporita: il pepe, più in lontananza la cannella, come vele di mare sullo stesso sfondo Oceano.
Mi viene così concesso di finire il bicchiere da solo, cullato da vagheggiamenti lievi come curva di nuvola; da lontano vedo arrivare il Professore. Preparo il nostro tavolo ed ordino due bicchieri di Lunae, per farlo contento; Professore, sieda qui. Ho pensato a quello che mi disse l’altra volta e credo di aver trovato la soluzione nel Vino, no, non rida di me Professore, le assicuro che qualcosa ho trovato, stia a sentire e intanto beva: si parlava della vita, di che cosa essa può apparire ai nostri occhi… ebbene io altro non so considerarla che un amore per questa carne ignobile che ci portiamo addosso; un amore per tutte le sue fragilità che altrimenti non sapremmo sopportare… la Vita è questo pregiudizio da innamorati a favore del Mondo, più in piccolo del nostro corpo incerto, ed io tutto questo amore lo trovo nel vino, al di fuori di questo amore per me c’è la paura, paura che un equilibrio che nemmeno conosco si interrompa, paura che tutto mi appaia d’improvviso troppo piccolo e meschino.
Professore, stavolta le insegno una cosa io, sorridiamo entrambi bevendo; la parola vino deriva da un’antica parola in Sanscrito, Vena, che significa appunto amare; per me la vita è amore, il vino amare e vivere bere, e davvero non mi sembra niente male. Professore tace, a me sembra annuisca, intanto beve, poi va a pagare e se ne va.
Resto solo, nuovamente, il mio cuore rapito da suggestioni languide, penetranti, olezzanti di gelsomino e paglia gialla; l’ultima risata intrappolata in un sorriso nervoso me la strappa il gran poeta Fabrizio; è per bocca sua che Jones il suonatore chiede meravigliato al mercante di liquori: tu che lo vendi, cosa ci compri di migliore?


Il suonatore Jones, Fabrizio De André

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