venerdì 16 gennaio 2009

rosa e le sue spine



"Rosa e le sue spine", il delicato racconto di Patrzia Esposito per il concorso di Villa Petriolo "I giorni del vino e delle rose".


Patrizia Esposito
è nata a Napoli ed abita ad Induco Olona.
Ha pubblicato nel 2005, per le edizioni Il Filo, il componimento “Il silenzio dei pensieri”. Nel 2006, con il racconto breve “U’ serbaggio”, si è classificata prima al concorso nazionale Poetika; al concorso Natura in bici, nello stesso anno, la sua poesia “Gira la ruota” ha meritato la menzione d’onore, mentre al concorso nazionale Cava de’ Tirreni, con il racconto breve “Fotogramma realista”, si è aggiudicata la medaglia, così come l’anno successivo con “Autodifesa di una donna matura”. Nel 2007, al concorso Narrativa Capannese Renato Fucini, si classifica seconda col racconto “Con gli occhi del cuore”. Nel 2008, Patrizia vince il terzo premio al concorso Bruno Cornaglia con la poesia “Sport e handicap”.


Racconto

"ROSA E LE SUE SPINE"

di Patrizia Esposito



“Non me ne importa proprio nulla di te e della tua stupida vita!” A questo pensavo mentre me ne stavo seduto sotto il pergolato al riparo dai raggi del primo sole primaverile.
“Sono sicuro che la mia esistenza andrà avanti benissimo anche senza la tua presenza ossessiva. Il domani non mi fa paura.” E via a un bel respiro liberatorio.
Quella mattina l’aria tersa consentiva al mio sguardo di spaziare fino al lago passando sopra le meravigliose colline dove l’uva sarebbe maturata durante l’estate. Il profumo delle rose che mi colpiva le narici era una carezza dolce e rassicurante.
Stavo trascorrendo un periodo di vacanza nella casa dove i miei nonni avevano condotto un’esistenza libera dagli stretti vincoli della città.
Erano stati felici contadini prima e lungimiranti proprietari terrieri poi, capaci di scorgere la possibilità di investire danaro e mezzi per arrivare a possedere vigneti capaci di produrre molta uva e di produrre il vino da vendere proprio in quella città che tanto odiavano.
Così era stato e oggi io potevo godere di tutto quel ben di Dio senza aver fatto nulla.
Quando ero bambino durante d’estate i miei genitori, che avevano seguito tutt’altra strada, si trasferivano qui ed io ne provavo un fastidio profondo perché mi allontanavano dai compagni di giochi facendomi sentire solo. Nella zona non abitavano bambini della mia età e così ero costretto a trascorrere le mie giornate con gli adulti. Se all’inizio la novità mi piaceva, dopo pochi giorni, passata l’euforia di sentirmi grande, cominciavo a protestare prima a parole e poi con i fatti rifiutandomi di mangiare e di dormire.
Ricordo la tenerezza di mia madre in quei momenti mentre cercava di consolarmi con le frasi dolci che solo lei sapeva pronunciare. Col tempo ho capito che, come me, era stata vittima di un egual destino.
L’ambiente contadino non mi apparteneva. Io cittadino trovavo difficile superare i disagi della vita di campagna.
La casa era una bella costruzione anche piuttosto moderna se la si confrontava con le case coloniche sparse lungo i pendii delle colline, ma presentava pur sempre delle limitazioni. L’acqua scarseggiava e bisognava dosarla adeguatamente. I nonni mi rimproveravano sempre quando si accorgevano che lasciavo aperto il rubinetto più del necessario. Io non lo facevo apposta: era un comportamento normale in città.
Che dire poi dei numerosi animaletti con cui mi dovevo confrontare in camera da letto oppure nella grande cucina, verso i quali provavo ribrezzo per non dire un disgusto assoluto. Mia madre nella sua estrema saggezza mi diceva sempre di considerare anche loro creature di Dio e di sopportare.
Comunque quegli anni erano stati veramente duri e maggiormente quelli che mi avevano visto adolescente, desideroso di frequentare gli amici una volta libero dagli impegni scolastici.
Invece le mie aspettative andavano puntualmente deluse per l’obbligo imposto da mio padre che riteneva impensabile trascorrere le vacanze in città, avido com’era di assaporare i profumi della campagna nelle dolci sere estive.
Così occupavo molto del mio tempo a leggere o a passeggiare tra i vigneti tenendo un filo di erba serrato nelle labbra mentre la rabbia mi montava dentro.
Poi venne l’estate del cambiamento. Ero arrivato in campagna, appena finita la quarta liceo, con la certezza di poter godere finalmente di una sconosciuta indipendenza perché avrei liberamente scorazzato in sella alla moto che mio padre mi aveva regalato come premio per la promozione o forse solo per lavarsi la coscienza. Finalmente avrei potuto cercare alternative alla noiosa vita casalinga che mi era stata imposta fino all’anno precedente, fare nuove amicizie e magari dare solo quattro calci al pallone nel cortile dell’oratorio o sulla piazza del paese.
Così avevo in animo di affrontare quell’estate e così feci.
Le mie scorribande lungo le modeste strade della zona divennero famose e i paesani avevano imparato ad usare il mio passaggio per regolare gli orologi!
Inaspettatamente ero felice di stare in campagna. Gli amici conosciuti erano piacevoli compagni e con loro andavo a fare il bagno nel lago divertendomi molto.
In particolare avevo legato con Edoardo, il figlio del farmacista che come me, terminato il liceo, si sarebbe iscritto alla facoltà di giurisprudenza; lui voleva fare il giudice, io l’avvocato. Entrambi eravamo forti delle nostre scelte e immaginavamo fronteggiarci, codici alla mano, in feroci dispute. Quante volte in conclusione abbiamo riso di noi, quante volte seriamente ci siamo confrontati finendo poi per parlare di ragazze divertendoci molto di più.
Poi ecco arrivare Rosa e la mia vita è esplosa in un caleidoscopico intreccio di emozioni e di passioni. In pochi minuti è divenuta il punto focale dei miei desideri, il limite massimo delle mie ambizioni, la meta dove avrei trovato la felicità.
In seguito anche lei mi disse di aver provato le stesse sensazioni ma la sua giovane età le aveva impedito di gustarle appieno. Solo col tempo avrebbe imparato che quei pizzichi al cuore erano il segno dell’amore che faceva capolino.
“Rosa è la mia vita!” Ecco come rispondevo a chi mi chiedeva chi fosse quella graziosa biondina con la quale mi accompagnavo nei assolati pomeriggi d’agosto.
“Rosa è la mia vita?” Ecco cosa mi chiedo oggi dopo venti anni, incapace di offrire a me stesso una risposta soddisfacente.
Di tempo insieme ne abbiam trascorso tanto, siamo cresciuti tenendoci per mano, abbiamo esplorato i sentieri della vita e dell’amore camminando fra le vigne fermandoci solo per scambiarci baci teneri o appassionati non appena i pampini ci nascondevano agli occhi degli altri.
I nostri volti erano coloriti dai raggi del sole al quale non risparmiavamo di offrirci durante i mesi estivi perché star fuori di casa era il modo per trascorrere insieme ogni momento delle giornata incuranti dei rimbrotti dei nostri familiari.
Divenuti adulti abbiamo deciso di unire anche davanti a Dio le nostre vite e con il matrimonio ci è sembrato di coronare un sogno vissuto da sempre.
Mai avrei immaginato che sarebbe arrivato un giorno in cui avrei allontanato da me il suo viso perdendomi nel vuoto della solitudine.
Oggi vedo riflesso nel bicchiere di vino rosso che ho nelle mani un volto sconosciuto sul quale scorgo profondi segni tracciati da un dolore. Cerco di inebriarmi con il profumo che promana dal calice ma non ci riesco.
Un sorso e poi ancora con il pensiero corro via, raggiungo le vigne, mi addentro tra i filari e la cerco.
“Dove sei Rosa?” La chiamo, la invoco, la maledico.
Rosa è la mia vita e io la sto perdendo! Sono solo e disperato. Sono venuto qui per cercare il mio passato.
“Rosa dove sei?” La maledico, la chiamo, la invoco.
Il tremore che mi ha preso la mano e rischia di farmi rovesciare il vino. Afferro il bicchiere per trattenerlo e bevo quel nettare tutto d’un fiato per non perderne neppure una goccia.
“Rosa…” Profumo di ricordi, vellutate sensazioni di dolcezza, abbracci di aromi confusi nella campagna di cui eravamo figli negletti.
Avevo raggiunto il mio sogno camminando al suo fianco senza pungermi con le spine del suo stelo sentendomi forte per il suo amore. E poi…
Chiudo gli occhi e sento il profumo delle rose carezzarmi il volto come un soffio di tiepida brezza. Sobbalzo, guardo con attenzione verso la campagna e la scorgo.
È ancora una biondina con lo sguardo imbronciato che si nasconde fra le ginestre fiorite che macchiano le colline fra il biondo del grano e il verde argenteo degli ulivi.
Mi fa cenno di raggiungerla.
“Rosa…” Ecco, finalmente è tornata a sorridermi. Siamo ancora noi.
“Rosa sto arrivando” le sussurro mentre muovo gli ultimi passi prima di perdermi trascinandomi tra i filari della memoria, assaporando il gusto aspro dell’uva non ancora matura godendo del calore del sole alto nel cielo che cancella l’immagine delle rose profumate ormai appassite dentro il mio cuore.


Amore che vieni, amore che vai, Franco Battiato (da Fabrizio De André)

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