sabato 4 luglio 2009

Il racconto di Giselda Campolo "Com' i' sono e fui" vicitore del terzo concorso letterario di Villa Petriolo S'IO FOSSI...VINO



Festeggiamo la vincitrice del terzo concorso letterario di Villa Petriolo S'IO FOSSI...VINO. EPIFANIE DELLO SPIRITO: è la giovane Giselda Campolo, di Messina, che si è meritata, con la suggestiva composizione "Com' i' sono e fui", il primo premio di questa edizione. Complimenti vivissimi da Villa Petriolo a Giselda!



La premiazione di Giselda Campolo alla cerimonia del 25 giugno scorso a Villa Petriolo


Giselda Campolo è studentessa al primo anno di Lettere Moderne. Un suo racconto è stato pubblicato sul periodico Centonove, uno sull’antologia “Scrivere donna”. Ha collaborato e pubblicato sul giornale del Liceo Classico Maurolico. E’ tra le vincitrici del premio letterario “Calabria in giallo 2009”. Migliore attrice protagonista al concorso teatrale di Tindari nel 2008.


Racconto COM' I' SONO E FUI

Due cirri vaporosi mi erano d’aureola. Ora non ho più voce. Non ho più capo. Quello dei miei pensieri non v’è mai stato. Eppure le antilopi s’ostinavano a invitare questa lince nelle steppe dell’argomentazione. Spesse volte andavo e spesse volte ero lodato. Anzi nessuno che non m’apprezzasse era gradito, e taceva con riserbo, di tanto in tanto accompagnato da riserva. Oh! Che tenera parola!
Ero in un boschetto, la prima volta. Zompettavo immerso nel lucore stinto dalle fronde di Peepul. I passi annuvolati dalle schegge di rugiada. Innumerevoli si aprivano le vie, le preferenze; e non si poteva essere certi che una, indicata dagli archi degli alberi come colonne di un tempio multiforme, fosse strada o, in vero, sentiero, che fossi io all’interno o escluso. Tutto era alla prospettiva. Vagavo armato, se non mente il ricordo, ché ero convinto di zappare poco prima. A mille traversai le volte e sempre più dal tozzo tronco v’erano funi in alto a cogliere frescura e parallele al suolo scagliate con tale potenza che ancora non si accasciano al ritorno. Mentre ero immerso un po’ a fantasticare di dire in molte piazze anche oltre il mare, non ero più abituato ai cinguettii né al sibilo di quei lievi pendii. Le spalle mi si serrano sul petto; sguainatolo, il pugnale acceso ho stretto. Eppur sorrido, fresco nello sguardo. Piego le gambe, fisso sul tallone, così le braccia e l’anche, ed il polmone tendo e muscoli e forze per il balzo, nel caso vi sia assalto. Per quante volte avevo svoltato, il ronzare avrebbe dovuto tacere, logicamente. Invece pareva mi seguisse. E ancora andavo e più si faceva forte. Mi fermavo e lo cercavo ma era in tutti i sensi, o così pareva. Però uno specchio mi porse un barlume. Perché non andare? Era una ninfa? Meglio non indagare: fosse Atena, ben me ne guarderei. Un pezzo di mica grande? Un diamante! Un diamante perso in qualche scampagnata! Ma non li mettono in quei casi, credo. Be’, mi ci addentrai. Tra le felci vi era un colibrì. Uno stranino: carico di bagliori. In abito da sera, pieno di gocce. Perché non si scrollava? La mano e il corpo tutto inarcato e lento, andavo a prenderlo. Si mosse e in un istante era librato a sbattacchiare l’ali. Volevo puntarlo almeno a sguardi, ma era in dirittura di una scheggia di luce e tutto sfuocato mi pareva il colore. In fremito volava e io lo seguivo. Spostava sé per liberarsi dell’intruso ma, io non so perché, non lo avevo a pena. Trovavo sciocco che non si innalzasse o nascondesse sotto qualche verde. Così fece. Ma non dove attendevo, tra i nodi di quegli alberi. In uno spiazzo sotto quelle volte, c’era un tronchetto, nodoso sì, ma smilzo e luminoso. Quando gli artigli si chiusero su un picciolo, appena s’inclinava la foglia spiegata lasciando intravedere folte mammelle gonfie. Il colibrì si accoccolò sotto la fronda alta ad allattarsi del rubino succo. Non ricordo come uscii dalla selva; ma dicevo altro, oggi. Non era sul mio esordio per il mondo, questo incontro, no?

Dicevo: due cirri vaporosi m’erano d’aureola. Quando mi avvicinavo, conferenziere, ad apparire, sempre voltavo il capo un pochettino, chiamato da qualche fattorino o chiamando, o, per lo più a guardare, sicchè, dallo spiraglio della porta, mezza platea potesse intravedere il cono di capelli del genio d’Asti. Non c’era uomo che più di me fosse il filosofo. Seduto in poltrona ero anche sul palco e non poteva dirsi che io non conoscessi Stanislavkji ché neppure lui aveva provato tutte le volte mie la scena dell’uomo in poltrona con lo scopo. Ero un attore, grande più d’un buco nero. Infatti ogni concetto che giungeva a me, e nelle domande raramente v’era, spariva senza replica nel fumo del parlare. Ecco perché i miei coni grigi. Come mi muovevo! Il corpo è angolare, e basta intersecare i gradi in vari modi, per prospettive nuove, se dell’addome i nodi premo alle cosce, smuove il sentire i palpiti che s’ampliano e s’accentuano ed io li seguo galoppando mentre risuona nella gola il ritmo degli zoccoli che battono sul morbido terreno, ora, asciugato il rivolo, ricco di lisca lacustre che suona il soffio armonico. Mille le pose, io poco più inclinato già cambia la sintonia dei flussi. Dei flussi! Oh, quelli riottosi che spumeggiano tra i rosa dal bordeax cascando alla coppa e svoltano stirscando sopra il vetro a creste di cavalloni e poi allineate scivolano in un corpo.
Ero dapprima guardia del chicco. Il punto d’oro. Al centro di tre altari cubi, una piramide e dentro, si diceva, il punto. Stavo cinto d’alloro a roteare attorno al grano. Innanzitutto andavo piano, diritto sul percorso curvo. Posato nel mio camminare. A mezzodì ero un po’ stranito, s’inclinava del busto il piano, volavo oscillante da corvo fissando il mio sguardo sull’are ed era, il mio voler finito, ogni circoletto più stretto. Non arrivavo all’Uno mai. Sbattevo per un giro a tutti i marmi, di Gimigliano, Creme Real di Portogallo e, nella trinità, il rubino porfido egizio. Al susseguirsi delle botte la mente si svegliava e il ginocchio s’insanguava. Pur non avevo livido e non dolore. Allora tornavo indietro, sino alla prima ruota, e cominciavo ancora. Gli uomini a me non venivano mai, eppur volevano girassi, io mulino. Di tanto in tanto, in ciclicità, quando Scorpione era a tre quarti in cielo, lanciavano le funi e mi acchiappavano, tirando a sforzo di anche e caviglie. Mi legano e mi portano alla Piazza. Colonne su colonne si rigeneravano e dalla pietra nasceva la carne. A doppia fila in linea correvano ritte queste schiere e sopra me lanciavano i talloni a spremere da me il divino compito. Io soccombevo. Non ero degno di restare ancora difensore, sì ero vecchio. Formavano dei cerchioni i cittadini tutti armati di bastoni piatti come spade intorno al punto. Non v’era chi lo custodisse. Il compito divino stava tra i ciottoli dello spiazzo. Contemporanea vicenda, penetrava la terra tra le fenditure delle pietre sino agli interrati. Stava nascosto a minacciarli degli Antipodi, che lui si era scelto il controllore e non un altro re voleva. Gli uomini intanto si logoravano nelle veglie e nel lavoro. Si addormentarono sulle pale, loro sostegno, cosiché lungamente perforarono il podere. Indolenti nel cadere e senza più volere s’inclinano e in fine si tuffano nel buco, la spada innanzi al volto, rivolti in anti-uomo, trovano il sepolcro. Così ad ogni ricorrenza. Regnavo con la mia necessità. Non dicevamo questo, pero!

Dicevo: due cirri vaporosi m’erano d’aureola. Io li scuotevo dilettosamente sotto i faretti che fosse ben palese la varietà dei miei bagliori. Dalla platea, è bene dirlo, si nota tutto, se anche arrossissi sarebbe percepito. Per molti è strano, quanto meno per le risposte dei discepoli, però il colore è visto e seppur non definito e ineffabile dà contributo all’emozione. Così i bagliori. Oh! Le mie fugaci lacrime! Dicevamo:… No! Questo devo dirvelo. Pazienza. Salterà il palco, che pure ho tanto amato! Via! Tanto è tutto palco.

Ero il primo che si mise a danzare. Navigavo immerso nelle visioni delle coste e quando giunsi in Grecia, io di vedetta, vedevo mille isole e sabbie all’orizzonte e rocce. Io per guardarle traballavo ondoso e per i flutti. La gioia s’addensava e scoppiettava e ancora sino a che mi allontanavo. In mezzo ai flutti dell’oceano, non v’era conforto, per me che ero in stiva, e anche il me sul ponte era disioso di visioni, dovevano venire e io danzavo: come se le vedessi. Saltavo come capretto morbido. Questo apprestò la mia fine. Andavo…

Eh, sì! Passeggio sempre! Ma tu sai bene, caro Pietro, che passeggiare è per scoprire. Ogni scienziato è in passeggiata, la mente è carica del mito e netta per scoprire una scienza netta. Vuole lo spunto e lo ricerca. Chiudi la porta? Vado giù? Sbarri anche quella? Posso tornare in terra? Son scioperanti! Prendo il mio regno ancora, caro Pietro! Ah! Che son io tuo superiore, sia un segreto. Chi è contrario in terra al me di Spirito frizzante, mi tenga pure amico come di Spirito sventato.




Giselda ed i suoi genitori con le "maschere del vino" alla cerimonia di premiazione del concorso letterario di Villa Petriolo edizione 2009

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