giovedì 21 ottobre 2010

I racconti de La gaia mensa: “Con magica ricetta, eterno amore” di Roberta Lepri



Il bel racconto di Roberta Lepri, oggi, per “La gaia mensa”, il concorso letterario di Villa Petriolo edizione 2010.

Roberta è nata a Città di Castello (PG) ed abita a Grosseto. Ha pubblicato i romanzi: “Sulla terra, a caso”, 2004 ExCogita Editore, “L’Ordine Inverso di Ilaria” 2005, Guida Editore (Vincitore del premio - Cimitile come migliore romanzo inedito del 2005), “L’Amore Riflesso”, 2006 Guida Editore, “La ballata della Mama Nera”, Avagliano 2010.


Racconto “Con magica ricetta, eterno amore” di Roberta Lepri


Lasciate che mi presenti: sono donna.
E come tale soggetta a forze oscure, presagi naturali, degli inferi e del cielo.
Con poco sforzo potrei avere le ali, ma la coda mi conferisce un passo da regina, perciò la preferisco: l'incedere in questa società è importante. Importante è apparire.
La coda mi si addice, penso quando la guardo.
Ma nessun tema: la tengo arrotolata e non si vede. Nessuno si spaventa.
Sono nata con alcuni segni di appartenenza alla nobile stirpe delle streghe.
Il più visibile spiega come io sia incline all'appetito e alla buona tavola, piuttosto che a pratiche oscene e a voli notturni in compagnia del capro.
Il mio ombelico è tondo, sporgente, birichino e appetitoso. A vederlo, vien voglia di mangiarlo, per la sua strana forma. E dunque, il mio ombelico è un cappelletto, miei signori, e sta a significar che son strega del cibo.
Imparai presto l'arte magica per mezzo delle vivande ma mai me ne servii in modo malvagio!

Purtroppo, niente al mondo è peggiore di una strega buona come il pane...finisce per esser sottomessa ed umiliata. E da ultimo perde tutte le sue virtù, tutte le astuzie.
Perciò l'uomo che mi ha brevemente amata, poi resa serva, ha fatto di me ciò che vedete: sottili rughe ai lati degli occhi e della bocca, lo sguardo triste, il fuoco quasi spento.
Se mi maltratta io piango, se mi tradisce io piango. Ed è così che le mie erbe officinali crescono: dagli occhi io stessa le annaffio.
E se qualche giorno di serenità mi fa creder sia tornata primavera, lui veloce fa morir le mie speranze e mi sgrida perchè non son quel che lui vuole: troppo grassa, troppo allegra, forse troppo curiosa delle cose del mondo. Son serva, par che dica quando mi guarda con ironico disprezzo.
Ma chi è dunque il vero mago? Chi la strega? Lui che mi lega con catene d'odio o io che lo trattengo con l'amore?
A me una sola cosa è restata, che è l'arte mia, e null'altro. E quella lui la ama per davvero.
Ho sacrificato la scopa per un manico più grande, atto a far da matterello per la sfoglia che so stender sottile. E' magico, si intende, e la sfoglia mia non si rompe, resta elastica, mai secca.
Quando li fai i cappelletti, amore? - chiedeva lui . Di quell'amore io vissi e trassi ispirazione.
Vi dico come.
Il segreto di questo cibo è nel suo insieme: la sfoglia, il profumo di uova fresche e di farina...
e il ripieno, che è vera arte sopraffina!
Mi ricordo mia nonna che spiegava, pare un secolo (e forse lo è davvero):
“ Ricorda, Mici”
(lei mi chiamava Mici, forse per via della coda arrotolata)
“ per il ripieno occorre carne prelibata, non gli scarti o i ritagli! Prendi tre etti di vitella magra e bianca e altrettanto maiale, ma il migliore. Poi petto di pollo in eguale quantità. Mettili a bocconcini a cuocer tutti insieme, con burro, carota, cipolla, sale e pepe. Aggiungi un pezzetto di prosciutto, per dare più sapore. Fai cuocer con calma. Tanta calma. Poi lascia raffreddare. Quindi macina pian piano, a mano, con lo strumento per fare le salsicce. Aggiungi due uova, parmigiano e ancora burro, grattaci dentro anche la noce moscata e aggiusta di sapore. Ripassa a macinare, amalgama e lascia riposare al freddo. Diventerà un ripieno duro e ne farai palline, da metter tra la sfoglia a riposare, quando l'avrai tagliata a quadratini, che poi chiuderai in triangoli tra i pollici, lasciando che gli indici rivoltino il lembo del cappello...così!” esclamava trionfante, dandomi l'esempio.
Ricordo la prima volta che li assaggiò il mio amore! Ero magra e sottile, e lui rideva per la mia bellezza. Avevo fatto un brodo di cappone, così come si deve: il cappelletto con altra compagnia diventa triste. Non è per questo meno buono: anzi! Ma senza brodo non si trova a suo agio, e il sapor primitivo ne risente.
Mi disse che ero strega, forse fata. Pianse di gioia. Ne prese una volta, poi un'altra e un'altra ancora. “Potrei mangiarne mille!” esclamò, pazzo d'amore e di lussuria in gola.
E tanti ne mangiò... che io ne restai quasi digiuna.
Ma non pensai trattarsi di egoismo: solo d'incontinenza alimentare. E lo scusai.
Poi passammo la notte a far l'amore.
E altre ne passammo in modo uguale, non so per quanto tempo, forse per anni.
Ma è vero che tutto muta nella vita: le notti, la giovinezza ...e anche l'amore.
Non quello di una strega, beninteso. Così come non cambia il sapore al cappelletto, se segui la ricetta. Quello dell'uomo, intendo, muta: che nella donna guarda gli anni e l'apparenza, spesso dimenticando il cuore.
Nessun sospetto mi prese, da principio, per quella giovinetta. La tua assistente, tu dicevi, e lo credevo. “Vorrei farle assaggiare i cappelletti” mi proponesti un giorno.
E io accettai, convinta dall'orgoglio che l'uomo mio sentisse amore per l'arte che sola mi restava!
Non avevo capito che da serva volevi di me servirti, e stuzzicare con il mio cibo gli appetiti di un'altra.
Lo capii vedendola. Giovane, bella, mi trattava con sussiego.
Pensava fossi poco più che cameriera, una governante abile in cucina. E nient'altro.
Non facevate neanche finta per rispetto della casa: dalla cucina sentivo le vostre voci cinguettare, mentre il mio cuore di strega si crepava.

“E sia!” dissi infilando il matterello nel brodo che bolliva “ brodo di strega divenga l'arte mia!”
E nella pentola la bontà ammaliata andò montando, andaron moltiplicandosi i cappelli... a non finire.
Poi mormorai le parole necessarie: che mai l'appetito possa terminare.

Ne portai dieci zuppiere. Dieci ne vuotaste, pazzi di bramosia. E ne chiedeste ancora.
E con l'estremo fiato ingoiaste l'ultimo cappelletto.


“...Trovereste degli eroi che si vantano di averne mangiati cento; ma c'è il caso però di crepare, come avvenne ad un mio conoscente...”

(Artusi, La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene. 7. Cappelletti all'uso di Romagna)

Da I piatti de LA GAIA MENSA. Concorso letterario Villa Petriolo 2010

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