lunedì 24 gennaio 2011

"Sospirate lauree” di Dario Ghiringhelli per il concorso letterario di Villa Petriolo La gaia mensa


Lo chef Pino Maggiore durante la cerimonia di premiazione del concorso letterario di Villa Petriolo "A Grangola!"




Continua, su DiVINando, la pubblicazione dei racconto partecipanti al quarto concorso letterario 2010 di Villa Petriolo “La gaia mensa”.

Racconto “Sospirate lauree” di Dario Ghiringhelli

Intanto il ritmo bizzoso e vivace della musica e della canzoni, invitante e contagioso, sembrava fatto apposta per abbandonarsi, per dimenticare ogni problema, personale o del mondo, per lasciarsi andare, complice la gioventù, all’onda della spensieratezza.
Ogni tanto accadeva che qualcuno del nostro gruppo riuscisse a conseguire la sospirata laurea che, quale convenzionale e tradizionale epilogo, sfociava in una cena con molti inviti da parte del neo dottore al quale toccava di finanziare l’avvenimento.
La cena cosiddetta di laurea veniva rigorosamente organizzata nel salone del ristorante Cadorna riservato per l’occasione.
Eravamo tutti invitati, ragazzi e ragazze, e la festa non poteva considerarsi tale senza che fossero presenti, come minimo, trenta o quaranta convitati.
E, come in tutte le faccende studentesche, era noto come si incominciava, ma ugualmente ignoto quale sarebbe stato l’epilogo.
Gianni era stato proclamato dottore in architettura con centodieci e lode dal magnifico rettore dell’Università Statale di Milano e nessuno degli amici e amiche si era rifiutato di contribuire alla colletta effettuata per l’acquisto del regalo da porgere al nuovo laureato, sapendo che sarebbe stato sicuramente invitato al luculliano cenone.
Mamma e papà, titolari del Cadorna, non poterono mancare alla cena di laurea di uno studente il più rappresentativo tra gli aficionados del Cadorna. Seduti tra Gianni e Ottavio, stavano, però, sulle spine, temendo che, con il procedere delle libagioni, il clima iniziale di distensione si trasformasse in un’atmosfera di eccitazione bacchica.
Al dolce, Ottavio, che non era stato parco nel bere, si alzò per dare avvio all’ennesimo brindisi in onore di Gianni ed esortando Gigi a tenere il discorso conclusivo della serata. Gigi, memore del suo complesso legato alla pronuncia della erre, tentò di sottrarsi, ma, alla fine, di fronte alle grida dei commensali:
“Discorso, discorso, discorso!”, improvvisò una specie di omelia encomiastica sulla laurea conseguita da Gianni, subito interrotto dagli evviva di tutti:
“Viva il dottore, viva l’architetto! Dai andiamo fuori a fare ancora un po’ di baldoria!”. Così, poco prima della mezzanotte, la compagnia si sciolse e tutti si riversarono sul piazzale della stazione ormai deserto, vociferando e schiamazzando allegramente.
Non si era ancora a livello di sbornia, ma l’alterazione dei maschi era notevole, mentre le fanciulle tendevano a dirigersi in fretta verso casa per evitare prevedibili rimbrotti da parte dei severi genitori.
Gli ultimi ad abbandonare la piazza furono il laureato, Gigi, Ottavio e Pierangelo, il quale formulò un’esecranda proposta:
“Andiamo a fare un giro in corso Sempione a Milano per tampinare qualche battona!”.
Come per un tacito accordo gli altri rimandarono la proposta al mittente:
“Ma sei pazzo, dopodomani sera c’è un’altra cena di laurea. Non ricordi? Il nobile Antonio si è laureato in scienze politiche. Fra quarantotto ore si riprende la kermesse!”.
Pagava tutto Antonio che, fiero delle sue vantate origini nobiliari, si piccava di poter spendere senza preoccupazioni di sorta, pretendendo dal ristorante un qualcosa di eclatante che superasse, per abbondanza e varietà, la precedente cena di laurea organizzata da Gianni.
L’indicazione tassativa era che si dovesse pasteggiare a base di spumante, con il rigoroso divieto di ogni altro vino.
Per quanti non avevano ancora smaltito le conseguenze della cena di Gianni, quest’ulteriore agape fraterna risultò assai impegnativa se rapportata alle funzioni fisiologiche della digestione.
Per di più, Antonio, già leggermente alticcio, ogni quarto d’ora, faceva il giro della grande tavolata fatta approntare a ferro di cavallo, riempiendo con la forza i bicchieri di tutti i conviviali.
Perché la regola vigente tra i laureandi del Cadorna era che il successo di una cena di laurea lo si giudicasse solo in funzione di quanti ne uscivano allegramente avvinazzati.
Ed Antonio, nel suo inveterato atteggiamento nobiliare, si era fissato che il suo cenone guadagnasse il guinness dei primati.
La risultanza fu che, intorno alle ventitré, quasi tutti gli invitati e quasi tutte le invitate erano in condizioni vistosamente precarie. L’atmosfera stava degenerando rapidamente e mamma e papà, altamente preoccupati, fecero togliere la corrente elettrica facendo precipitare il salone nel buio, che provocò un fuggi fuggi generale, sfociando nel consueto piazzale della stazione delle Nord.
Un gruppo di ragazzi si trovò vicino all’ingresso del Partigiano, la nota balera già citata più di una volta.
Quella sera era in pieno svolgimento una festa da ballo di tono popolare affollata di servette e militari in licenza. Il gruppo di giovani entrò tumultuosamente nella sala da ballo, mentre Antonio, il festeggiato, si mise a vomitare senza ritegno su una poltroncina vuota per poi cadere a terra quasi inerte.
Pierangelo risolse d’autorità la situazione, rovesciando due bicchieri d’acqua sulla faccia di Antonio che rinsavì all’istante, recuperando, in un certo qual modo, il proprio equilibrio mentale.
Ottavio ripagò il gesto salvifico di Pierangelo, dopo essergli arrivato di dietro, rovesciandogli altrettanta acqua giù giù per la schiena.
Intanto Gigi ed Eugenio avevano preso un po’ di mira una ragazza piuttosto grassoccia e tarchiatella, girandole intorno per invitarla a ballare. Naturalmente le loro avances furono troncate dall’intervento del suo accompagnatore risultato, a posteriori, essere un operaio dell’Isotta Fraschini, con intercorrenza di spinte e spintoni.
Il gestore della sala, ex resistente, dovette intervenire, investendo con violenza i reduci della cena di laurea:
“Cosa vi insegnano all’università? Questa è la casa del Partigiano e ci vuole rispetto….. vergognatevi!”
“Non è il caso di drammatizzare con dei poveri studentelli come noi”, gridò, per tutta risposta, Franco, cercando di volgerla in ridere.
“Silenzio! E filate via subito!”
“Va bene ……….. va bene!”, ribattevamo tutti noi in tono conciliante.
“E non crediate che la cosa finisca qui, incoscienti! Penserò io a fare una denuncia ai carabinieri”.
Ci fu un leggero sbandamento del nostro gruppo al quale subentrò la voce tagliente e sarcastica di Gianni, anche lui presente in qualità di ex neo laureato.
“Adesso basta, culatina!”.
Tutti conoscevamo il soprannome affibbiatogli da buona parte della popolazione saronnese che suonava pressappoco così: “Maria Pompilia, colei che nel camminar dimena l’anca e se non l’ha preso, poco ci manca”.
Il gestore allibì.
In tutta la sala si era creato quel mutismo quasi cadaverico fatto di tensione nervosa, che si diffonde allorché qualcuno osa lacerare le norme riservate dell’ipocrisia e scaglia in un ambiente, a mò di proiettile, l’affermazione di una scottante verità.
Quel siderale silenzio fu rotto da una risata assai becera, spietata e bestiale, più da folle che da persona in preda all’alcol. Antonio, il dottore in scienze politiche, il festeggiato di quella sera, che aveva ascoltato tutto nella condizione incerta fra il dormire e l’essere desto nel suo annebbiamento etilico, si era svegliato dal suo torpore e bollava con espressione irriverente, acuita dalla sua erre moscia, il discredito di un uomo che, sino a un momento prima, era un riverito e onoratissimo ex partigiano.
Pochi minuti dopo una pattuglia di carabinieri ristabiliva l’ordine, invitandoci con cortesia a lasciare la sala da ballo e a disperderci in fretta.
L’imposizione dei gendarmi fiaccò un po’ tutti e, noi quattro, rimasti soli, mentre tutti gli altri si lasciavano inghiottire dall’oscurità, ci ritrovammo nuovamente davanti all’ingresso del Cadorna, che, nel frattempo, aveva chiuso i battenti.
Gigi, Ottavio, Pierangelo ed io eravamo un po’ come “i quattro dell’Ave Maria”, nel senso che il feeling tra noi, quando eravamo soli, raggiungeva la massima intensità, giusto perché ognuno di noi la pensava in un modo diverso dagli altri, ma in totale comunanza di intenti.
Una salutare sigaretta sigillava silenziosamente ciò che in quel momento tutti avevamo già in animo di fare.
Senza proferire parola alcuna, ci accomodammo sulla spider di Gigi che, quasi automaticamente, prese la direzione di Cerro Maggiore, dove Silvana, come da suo costume, ci avrebbe sicuramente ricevuto nel suo appartamento posto sopra la già menzionata merceria divenuta per noi, nel tempo, un confortante rifugio.
Ma Silvana, appena sentì l’inconfondibile rumore della spider, sbarrò la porta. Non gradiva, per via dei benpensanti vicini, che avvenissero scomposte e rumorose manifestazioni di allegria schiamazzante sotto la sua abitazione. Fu tuttavia, costretta ad aprirci, per interrompere i pugni che battevamo contro il portoncino d’ingresso.
Silvana, la cui bellezza era trascorsa, ma non passata, come avrebbe giustamente affermato l’autore de “I Promessi Sposi”, non potendo venir meno alla sua fama di “boccuccia di rosa”, ci fece accomodare in salotto sorridente ed un po’ preoccupata al tempo stesso, ignorando quale sarebbe stata la conclusione di quella improvvisa intrusione in casa sua.
Come era sua abitudine in simili circostanze, aveva assunto un atteggiamento civettuolo ed ammiccante che ben confaceva alla sua disabbigliata vestaglietta tenuta chiusa da una cintura allacciata in vita.
Il nostro intendimento era chiaro: volevamo concludere la serata con un certo ardore della fantasia e dell’immaginativa.
Silvana era seduta nello splendore dei suoi quasi quarant’anni ben visibili attraverso qualche piccola ruga del viso, e nella folta nera capigliatura che luccicava solo per la presenza di qualche sporadico filo grigio; sul viso, la mancanza di trucco stentava a renderle giustizia.
Il suo modo di guardarci, lasciando trapelare quelle misteriose esperienze di vissute tenzoni d’amore, era in grado di sconvolgere la nostra mai sopita ed anelante brama di sesso.
Come per una silenziosa intesa, Ottavio, Pierangelo e Gigi mi spinsero letteralmente verso di lei.
Io, ancora un po’ inebriato dalle abbondanti bevute, dondolai vistosamente nel mezzo del salotto, aggrappandomi, per non perdere l’equilibrio, alle spalle di Silvana, che, senza riluttanza, fece atto di dirigersi verso la camera.
“Va, va con la nonna” urlarono in coro i miei amici.
Silvana, non sapendo se ridere o arrabbiarsi, mi trascinò nella camera chiudendo la porta, mentre i tre lasciavano la casa per aspettarmi in auto.
Li raggiunsi dopo circa tre quarti d’ora.
Facemmo ritorno a Saronno, evitando tutti un sia pur minimo accenno a quell’amplesso che mi era toccato, perché ognuno di noi già pensava alle nuove avventure del giorno dopo.
Come poteva configurarsi una generazione che allora conosceva una sola dimensione, il futuro, e che considerava il passato un freno ed un impaccio alla corsa verso di esso?

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