giovedì 17 febbraio 2011

“Una sottile linea di confine“ di Maurilio Di Stefano per LA GAIA MENSA




“Una sottile linea di confine“ è il racconto di Maurilio Di Stefano per La gaia mensa, il concorso letterario di Villa Petriolo edizione 2010.


Maurilio Di Stefano abita a Roma. E’ studente di Medicina e Chirurgia e, in tutto il resto del tempo, scrittore e musicista (flauto traverso e batteria).


Racconto “Una sottile linea di confine“ di Maurilio Di Stefano



Questa è la storia di una madre e di un postino, per così dire. Per cui c’entrano dei figli e delle lettere, è ovvio. Figli, lettere, una torta al formaggio. E amore e attesa e morte. Il solito turbine che è la vita. Impossibile sbagliare.
Dunque, il postino sono io, e lo ero anche in quel freddo giorno. Durante la notte era venuta giù neve a palate – una maledizione di zucchero filato. Cominciava ad uscire il sole, quando pescai una lettera che recitava l’indirizzo di una certa signora Amata. Il cognome era illeggibile... ma la signora Amata, a Tagliacozzo, era una sola.
Raggiunta l'abitazione che rispondeva all'indirizzo, indugiai. Niente cassetta della posta, finestre sbarrate, facciata tetra. Per un attimo mi convinsi che non potesse essere abitata. Poi notai che il vialetto, cui si accedeva tramite un piccolo cancello in legno, era perfettamente sgombro. La neve che lo aveva ricoperto era stata confinata ai lati, a lasciare spazio sufficiente perché una persona vi passasse comodamente. Provai a spingere. Il cancelletto si aprì, docile e perfettamente oliato. Era stato lasciato socchiuso. Forse per il postino, pensai. Giunto all’uscio, non ebbi il tempo di bussare, ché la porta si spalancò rapida su un viso anziano e tondo. Una donna. Occhietti neri come fessure d’ombra gelida. Dall’interno dell’abitazione, tepore a non finire. L’espressione della donna si rabbuiò repentinamente, quando mi vide, lasciando spazio a quella che sembrava cocente delusione.
“Oh… ciao”, disse con tono annoiato.
“La signora... la signora Amata?”, domandai balbettando. Lei parve sorpresa, spiazzata.
“Devo consegnarle una…” Non mi diede nemmeno il tempo di pronunciare la parola lettera. Non appena vide la mia grossa borsa e la busta che stringevo nella manina irrigidita dal freddo, mi afferrò e mi trascinò in casa di peso. Richiuse pesantemente la porta, scacciando il mondo esterno come un insetto fastidioso. D'un tratto si fece gentile e premurosa.
“Oh, ma devi essere tutto infreddolito. Vieni, accomodati.” E subito dopo: “Da' qui!”, strappandomi la lettera di mano con violenza da animale affamato. L’aprì in fretta, tremando di eccitazione. Ma quando ebbe scorso la lettera fino in fondo, con disinteresse sempre crescente, sbottò infuriata: “Mario? Mario! E' mia sorella, che ci scrive... MIA SORELLA! ” E gettò nel fuoco la lettera e quel che restava della busta, sollevando nell’aria mezzo addormentata scintille e cenere.
Solo allora mi resi conto del vecchio che sedeva immobile davanti alla flebile fiamma del camino. Mi chiesi come avessi potuto non notarlo. Era assorto e silente, sprofondato in una poltrona forse più antica di lui.
Intanto la donnina mi condusse decisa ad una poltrona identica a quella del marito, posta anch’essa a fissare il fuoco. “Siediti!” esordì in un tono che non ammetteva repliche, “Ti porto una fetta di torta di formaggio appena sfornata. Mio figlio ne va pazzo.” La fissai voltarmi le spalle e recarsi al modesto angolo cottura.
La donna, i suoi occhi, e la fama che la precedeva grazie alle storie di paese mi mettevano parecchia agitazione, lo ammetto; ma il corpo sottile e calmo del vecchio e il calore che emanava dal focolare sembravano sufficienti a neutralizzare ogni timore, almeno per il momento.
Mi accomodai come meglio potevo sulla poltrona. Il vecchio, che dunque si chiamava Mario, non mi degnò d’uno sguardo. Fissava le fiamme baluginanti con il viso privo d’espressione. Respirava? Ma sì, certo che respirava.
Ed ecco Amata tornare con una fetta del suo dolce al formaggio. Accettai e assaggiai. Mi scottai appena la lingua, ma il sapore era buono. Davvero. Lei sorrise soddisfatta e spiegò: “E’ il dolce preferito di mio figlio, come ti dicevo. Dovrebbe essere qui tra poco, così gliene ho preparata una doppia razione. Uh…” e corse via verso il piano superiore dell'abitazione, come ricordando un impegno urgente.
“Ti è piaciuto il dolce?” chiese d'improvviso il vecchio con voce catarrosa, quasi non parlasse da anni.
“Oh, sì… moltissimo…”, dissi, ed ero sincero. Lui annuì e sorrise, ma entrambe le cose parvero stentate.
“E’ buono sul serio. A Primo sarebbe piaciuto, come ogni volta.” Primo doveva essere suo figlio. Era usanza diffusa imporre nomi come quello, all'epoca, nel folto di quei boschi, quando nasceva il primogenito di una famiglia. A Primo sarebbe piaciuto... Sarebbe?
Il vecchio si rese certamente conto della mia espressione perplessa e non ebbi bisogno di chiedere delucidazioni.
“Era il nostro unico figlio. Fu dato per disperso in guerra...”, raccontò, in un modo che forse non si addiceva completamente ad un bambino ma che lo stesso compresi appieno; per merito di quella peculiare, potente connessione che sembra generarsi a volte e senza una precisa ragione tra i bambini e gli anziani. “Le sue spoglie non tornarono mai a casa” spiegò il signor Mario, “e mia moglie non si è mai arresa all'idea che fosse morto. Da allora Amata... prepara. Capisci? Prepara se stessa e tutto, qui in casa. E aspetta. Quante di quelle fette di dolce ho visto finire nell’immondizia! Ed il cancelletto del giardino mantenuto costantemente accostato, il suono di qualcuno che bussa alla porta, l’arrivo di una lettera… carezze di folle speranza. Perché basta un refolo del vento della resa, vedi, e la candela della speranza si spegne all’istante.” Solo ora mi accorsi che piangeva piano, come per non dare fastidio. “E giuro che non so come Amata tenga accesa la sua, di candela: ne deve avere a centinaia, di riserva, lì nella sua mente. Nel suo cuore di madre. Ora, lei è su, a rassettare la stanza di Primo, nonostante sia intonsa dal momento in cui lui ne uscì per non rientrarvi mai più. Perciò, quando scenderà di nuovo, sii gentile: non farle credere che la temi o provi pena per lei. La sua malattia, se è così che vogliamo definirla, non è contagiosa. Sottile è la linea di confine che corre tra la follia e la speranza, tra l’ossessione e l’amore. Così sottile che spesso scompare...”
Accompagnò quelle ultime parole, per la verità un sussurro a pochi centimetri dal mio viso, con un gesto delle lunghe dita ossute che stava a significare il dissolversi di qualcosa. Quindi si lasciò ricadere il braccio in grembo e ristabilì il suo contatto telepatico con il fuoco, nuovamente immobile e silenzioso.
Mi alzai lentamente, e mi ritrovai a fronteggiare la signora Amata come in duello.
“Be', arrivederci” dissi a fatica. “E grazie ancora dell’ospitalità, del calore e dell’ottimo dolce.” Poi, con una voce che non era la mia, aggiunsi: “Lo serbi in caldo per Primo. E non appena dovesse giungere una lettera che le manda lui, verrò a consegnargliela di persona.”
Un lampo di razionalità le attraversò gli occhi. Per un attimo seppe, o ricordò, che suo figlio non sarebbe mai tornato. Ma fu solo un attimo. Subito dopo, gratitudine sconfinata sul suo volto. Gratitudine perché le turavo un’altra falla, un altro giorno, e almeno da lì nessuno spiffero sarebbe filtrato a minacciare la fiamma della sua candela sempre accesa.
Uscii, tornando al mondo reale. Quello in cui Primo non avrebbe mai percorso il vialetto del suo giardino né scritto a casa per comunicare sue notizie. Quel mondo che Amata chiuse ancora una volta fuori, insieme a me e alla neve che tutto mette a tacere.
Lasciai dietro di me la casa, la strada di cui non ricordo il nome, Mario e il suo camino, sua moglie, il suo cancelletto socchiuso come un bacio non dato... e quella torta al formaggio che, credetemi, era davvero squisita.

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