lunedì 14 novembre 2011

Il racconto “Dieci bicchieri di ricordi” di Tiziana Monari per "Wine on the road"



La raccolta dei racconti partecipanti a “Wine on the road”, concorso letterario 2011 di Villa Petriolo, si arricchisce…

Tiziana Monari nasce a Monghidoro in provincia di Bologna, piccolissima si trasferisce con la famiglia a Prato, anche se trascorre ancora lunghi periodi con i nonni nella quiete della montagna. Segue studi umanistici letterari, ama leggere, girare il mondo e fare lunghe passeggiate nei boschi con il suo cane. Scrive poesie e racconti solo da qualche anno.
Molte sue poesie sono presenti in raccolte e riviste letterarie. Ha al suo attivo circa cento concorsi vinti alle prime posizioni.
Quattro sono le raccolte che ha pubblicato: “Frammenti d’anima” Aletti editore, “Il cielo capovolto” Maremmi Editore (risultato del premio letterario l’Autore)e “Il lamento di Antigone” Lulù Edizioni- E’ del 2010 la sua ultima pubblicazione ”La luna di Dachau”(risultato del premio letterario Patrizia Brunetti).


Racconto “Dieci bicchieri di ricordi” di Tiziana Monari

Non mi è mai piaciuta la vita rilegata in poche stanze, stare confinata in un luogo chiuso. Vivere dentro un regno difeso da sottili pareti di vetro. La stessa casa. Gli stessi mazzi di fiori freschi, l’inutile sfoggio di colore dell’arredamento. Ho sempre sognato di affacciarmi ad una finestra e vedere la foresta primigenia della mia mente, un viluppo di tronchi e rovi, di biforcazioni e lune, di fiumi e laghi di smeraldo, dove il mio pensiero non ha mai cessato di esistere. Il viaggio per me è sempre stato il colore dell’esistenza, la gioia del movimento, il piacere della scoperta. Nel viaggio ho assaporato colori e profumi, ho sorseggiato buoni vini, facendoli scendere lentamente in gola, provando quella breve euforia del mondo che si sfilaccia, si collide, poi si riassorbe. Ho fatto tintinnare il bordo di calici con nettari pregiati, ho sentito il liquido ambrato che scorreva lentamente nelle vene,prendendo possesso di ogni fibra del mio corpo.
Assaporare la vita era prendere un piccolo battello col mare mosso ed andare a esplorare Chiloè. Partivo con lo zaino in spalla, in mattine di lievi foschie, abbandonandomi all’avventura, alle brume del desiderio e dell’incanto. Approdavo in un’isola diversa da tutte quelle che avevo precedentemente conosciuto. Un luogo selvaggio, figlio del tempo, abbracciato al mare dalle sue palafitte colorate. Una terra di dei e semidei, con le capre venute chissà da dove, abitata da re e pirati. Un luogo nebbioso e magico che non apparteneva a nessun clima, un bacio lungo di cielo e di mare. Trascorrevo ore intere pigramente sulla spiaggia a raccogliere conchiglie, a sentire la loro voce di marea. Erano giorni vissuti in un idillio sacro, senza giornali, senza telefono, senza orologi, segnati soltanto dal percorso del sole, dalle grida dei gabbiani,dal lento sfogliarsi delle pagine dei libri. Vivevo come Ulisse nell’isola di Calypso,con una strana disperazione che calava nel cuore, alla sera. Poi la bruma si allargava, il profilo della notte mi avvolgeva come un mantello. Era l’ armonia del mondo Chiloè, la mia provvidenza personale, la mia isola del tesoro da vivere senza riserve . A Chiloè ho conosciuto l’Undurraga,il vino degli dei, il conforto dei mortali come scriveva Pablo Neruda. Adoravo sorseggiare dalla mia terrazza sul mare questo vino prezioso e profumato, frutto di una terra bellissima fatta di deserti, ghiacci e venti. Affondavo delicatamente la vite nel sughero e mentre levavo il tappo l’aroma intenso che si sprigionava dalla bottiglia allontanava il freddo che sentivo nel cuore. Nei giorni di pioggia mi perdevo per cantine, prendevo un bicchiere vuoto all’entrata e procedevo di mescita in mescita, riempiendo le mie papille gustative di liquidi puliti ed eleganti. Si dice che la coltivazione della vite in Cile risalga al 1500,gli spagnoli furono i primi ad importare uve dalla Spagna . I grappoli più preziosi ancora oggi vedono la luce nella valle del Maipo. Di questo luogo ricordo “La taverna del sole” una piccola enoteca con i mattoni a vista che dava l’idea di qualcosa di genuino, di vero. Le bottiglie allineate disordinatamente sugli scaffali, un cartello che diceva che il vino era come l’amore. Entrambi devono essere coltivati con cura e dedizione, tutti e due hanno bisogno di un terreno fertile, devono essere coccolati,annaffiati,protetti. I tavoli erano coperti di tovaglie a quadretti rossi e le bottiglie sprigionavano un aroma tenero e gustoso mentre la luce del sole tramontava dietro le colline che costeggiavano la vallata.
La vita ha il potere di ricordarci ogni attimo cosa sia il dolore, la disperazione, la tristezza, il fallimento. Per vincere il malcontento che avvelenava e che avvelena anche oggi le mie giornate, iniziavo lunghi viaggi senza meta, in luoghi di amabili ombre, manipolando la memoria e le dimenticanze. Toccavo le esigue pietre fredde e tristi di Venezia, le sue piogge, i lampioni delle sue piazze. Da una gondola che vibrava a filo d’acqua ammiravo in estasi questa città d’oro, splendida e cupa, scintillante e malinconica. Assistevo con passione e tenerezza alla sua morte. Venezia era una bella donna che si spengeva col giorno e si accendeva di forme e prodigi sul far della sera. Amavo i profili dei suoi canali, il velo di vapore nel cielo, le piccole cose di ogni giorno che qui erano teatro, esistenze puramente sceniche, insieme alla via lattea e alle stelle. Mi tuffavo nella sua luce, nella vibrazione delle sue onde, nella passione del suo cuore irreale. Contemplavo per ore i marmi delle sue chiese, la compostezza, la porosità dei loro capitelli. Aguzzavo i sensi e percepivo il profumo dell’universo e di un vino inimitabile:il prosecco. Lo riconoscevo ad occhi chiusi già al primo assaggio, fresco, allegro,testimone di una terra di alte colline ricamate da fitti vigneti. Versatile, fruttato, giovane, luminoso come le foglie delle sue viti che mantenevano la luminescenza oltre il calare del sole. Un sapore aspro, rotondo,da succhiare piano, come un amante. Era amore il prosecco, una bolla organica di piacere,mentre la mente andava al ricordo di chicchi chiari e maturi tinti dagli ultimi spasmi del tramonto. Intorno la quiete di un universo in silenziosa attesa, il vento che mi scompigliava i capelli, il silenzio che ondeggiava, interminabile.
Parigi mi accarezzava le veglie, camminavo per ore sulla Senna, la città deserta, il cielo che si tingeva di viola. Percorrevo le sue strade, i suoi vicoli antichi, sostando nei giardini, nelle piazze dalle lievi cadenze barocche. Era tutto armonico e accorato, nell’abissale distanza di epoche e stili. Guardavo le vecchiette che in coppia affollavano gli hotel ,l’occhio fisso, i capelli azzurri, le gambe magre e lunghe, la bellezza ormai svanita, il passo lento e impacciato,un bagliore di demoniaca curiosità dentro il cuore. Si affollavano in vite consumate dall’abitudine, logorate dal dolore. Ora, a oltre settant’anni,si riunivano in un unico respiro, con un desiderio di conoscenza nuovo,come se solo adesso cominciassero ad esistere. Non amavo sostare nei grandi alberghi, quelli dove nessuno ti conosce, pieni di gente snob, di ascensori, di vetrine luccicanti. Preferivo i piccoli alberghi dove la storia del mondo veniva tenuta rispettosamente lontana. Raccoglievo gesti, espressioni, storie d’amore intrecciate e subito sfiorite. A volte sorseggiavo una coppa di champagne con il cappellaio matto in una stanza che profumava di miele e fiori di campo. Le frizzanti bollicine portavano alla memoria storie di abbazie e di monaci, di tavole di legno a forma di freccia piazzate davanti a solitarie strade di campagna. La bottiglia di champagne sbirciava timida nel passato , cercando di orientare il mio futuro. Insieme stipulavamo timide alleanze. Ne scrutavo di soppiatto la limpidezza, il colore biondo, sognando grappoli di glicine che scendevano dal pergolato in una metamorfosi estiva che sarebbe durata nei miei ricordi per tutta la vita.
Ad Aru Island invece le giornate erano molto lunghe, l’orizzonte stagliato in un punto lontano. Vivevo in un piccolo lembo di terra, in un verde misto alla pioggia e a centinaia di uccelli. Piccolissimi e luccicanti come delle lamiere che oscillavano nel cielo lanciando grida stridule. Le giornate che si preparavano avevano in serbo meraviglie. Nuotavo con i pesci volanti sulle onde, con il sole che bruciava quella piccola striscia di terra e faceva salire dolci nuvole nel vento della sera. Respiravo l’odore del mare, del cielo azzurro intenso, delle palme lucenti. Sentivo un bruciore negli occhi, nel centro del corpo, il sole sospeso sull’isola, l’aria calda che mi accarezzava come una musica dura e pesante, che stringeva il cuore. Alla sera ingoiavo euforica un pinot nero, alto, slanciato e ricco di personalità per placare quel malessere interiore che da sempre fa da sfondo alla mia vita. Mi mettevo davanti al bicchiere e ne studiavo le tonalità di colore, la trasparenza, la lucentezza. Chiudevo gli occhi e aspiravo il suo profumo in un viaggio irreale alle soglie dell’infinito.
Non ho mai abbandonato le illusioni che mi hanno fatto vivere. Come Don Chisciotte ho attraversato l’ardore delle fiamme e lo strepitio delle acque. Ho vagabondato per apprendere, per capire, per perdere incertezze e acquistare illusioni. Ho percorso strade , provando e riprovando, fuggendo, cercando cose perdute, in un’allegria furiosa, in un mondo che era un variopinto mercato dove tutto era in vendita a poco prezzo. Ho degustato centinaia di vini, mi sono persa in riflessi rosso rubino, un sorso dopo l’altro. Ho ascoltato Mozart in compagnia di buoni rosati, di vini speziati ed amarognoli, ho tradotto Seneca mentre un Cabernet ammansiva le mie ansie. Sono stata assalita da migliaia di pensieri,convivendo con me stessa, altre volte annoiandomi profondamente. Ma ho conservato sempre la meraviglia che prova il viaggiatore davanti alle rovine dei templi,davanti al calore antico di un barbaresco, deliziandomi di ogni cristallo di rosso, gli occhi che di notte si alzavano verso un’invisibile città celeste. Facendo della mia vita una copia del cielo, accostando i giorni alle notti, alle colline che si arrotondavano nelle valli, allo scroscio delle correnti ,alla lentezza accidiosa dei fiumi. La mia vita diventava un viaggio, l’unica possibilità di salvezza. Un unico eterno viaggio alla scoperta di quelle cose incompiute e mancate, che possiedono la forza della rigenerazione. E del rimpianto.

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