martedì 20 dicembre 2011

Wine on the road: “LE VIGNE DI FRENE’” di Giorgio Baro



Giorgio Baro, con il racconto “LE VIGNE DI FRENE’”, ha partecipato al quinto concorso letterario di Villa Petriolo “Wine on the road”. Buona lettura!


Giorgio Baro scrive di sé:
“Sono nato nel 1961 a Torino, città dove ho sempre vissuto e dove lavoro come impiegato. Oltre ad essere appassionato di sport, amo molto la montagna alla quale mi avvicino, per quanto possibile, in tutte le stagioni; infatti mi piace fare escursioni sia a piedi sia con gli sci. Altre mie grandi passioni sono la lettura e la scrittura; da alcuni anni scrivo testi di prosa ma soprattutto di poesia (a quest’ultima mi dedico, pur con discontinuità, fin dai tempi della scuola media)”.


Racconto “LE VIGNE DI FRENE’” di Giorgio Baro


… a volte il viaggio è tornare inaspettatamente alle proprie origini …

Aldo Blanc aveva appena incominciato ad andare a scuola la prima volta che era salito alla borgata Frenè. In quegli anni, nella frazione arroccata sopra un cocuzzolo del pendio esposto a sud - dal fondovalle si distingueva subito la chiesetta bianca, quasi una sentinella vigile e benedicente sulle case - oltre a suo nonno risiedevano unicamente due famiglie; e pensare che, fino alla metà del secolo scorso, ci stavano ancora una ventina di persone. Andando indietro nel tempo, però, nel villaggio ogni baita era abitata, e i bambini sbucavano da sotto i tavoli e da dietro la stufa e facevi fatica a contarli tutti.
Poi, dal 1950 in avanti, l’abbandono della montagna aveva sempre più ridotto la popolazione stanziale; una minoranza si era fermata in valle, ma la maggior parte era scesa nella grande città di pianura a cercare un lavoro in fabbrica. Generazioni nuove, che non volevano ripetere la vita di stenti e di sacrifici dei loro vecchi. Così, inesorabilmente, i muri delle stalle e delle case vuote si crepavano sempre più, gli inverni di nevi pesanti sfondavano i tetti, cespugli spinosi infestavano i coltivi strappati con fatica a un terreno impervio. Solo qualcuno, verso il finire del secolo, era tornato su e, impiegandoci sudore e risparmi, aveva riaggiustato la vecchia baita di famiglia. Qualcun altro aveva provato a vendere, ma senza successo. Quella non era montagna che si prestasse allo sci o al divertimento, quella era sempre stata e sempre sarà montagna povera, del silenzio e delle pernici. Nessuno ci avrebbe fatto investimenti turistici. Chi tornava era perché cercava le sue radici.

Da bambino alla borgata Frenè Aldo ci era poi salito soltanto un’altra volta in autunno quando si era fermato per alcuni giorni dal nonno Giustino. Durante quella settimana era andato al pascolo con le due mucche, Nerina e la Fulva, e aveva aiutato il nonno a vendemmiare. Chi allora abitava alla borgata lavorava dei terrazzamenti dove cresceva la vite: erano vigne di pochi filari, e la vendemmia si concludeva nel giro di qualche ora. Aldo ricordava il nonno che si caricava sulla schiena la gerla piena di grappoli; una volta pigiati, avrebbero dato un vino fresco e fruttato, poco adatto all’invecchiamento, dal colore rubino scarico che col tempo tendeva a virare all’arancio.
In seguito, per anni, Aldo non avrebbe più rivisto la casa del nonno in montagna. Suo padre, ingegnere alla Fiat, era andato a lavorare prima in Brasile e poi in Sicilia portando sempre con sé la famiglia.
Fu proprio durante la permanenza in America latina che Aldo avvertì fortissima la vocazione religiosa. Rientrato in Italia si chiuse in seminario; questa scelta, però, non fu assolutamente condivisa dai genitori, in particolare da suo padre che tentò in tutti i modi di dissuaderlo. Non essendoci riuscito, sparì, e con lui sua madre; di loro non seppe più nulla, forse erano nuovamente partiti per il Brasile.
Nonno Giustino, intanto, aveva appena fatto in tempo a vedere l’alba del nuovo millennio prima che il sangue, in un moto ribelle improvviso, strozzasse i suoi giorni. Aldo, all’ultimo esame di teologia, pochi mesi e avrebbe vestito l’abito talare, fu l’unico tra i parenti ad accompagnarlo al cimitero in un gelido pomeriggio di primavera. Quattro anni dopo la curia lo mandò a sostituire don Mario nella diocesi sulle montagne dov’era vissuto il nonno. Ad Aldo Blanc, diventato per Dio e per gli uomini “don Aldo”, non parve vero. “Com’è incredibile la vita”, si ripeté per giorni.

Don Aldo arrivò a destinazione una mattina di febbraio che nevicava; appena sceso dal treno lo accolse il vice sindaco, un omino rubizzo con due baffoni spioventi che, senza ascoltare ragioni, lo accompagnò al caffè a bere un punch bollente. Poi andarono insieme alla canonica. Lì rimase solo con don Mario; questi, un sacerdote che per cinquant’anni non si era mosso dalla valle, gli parlò a lungo del paese, delle borgate e delle anime della parrocchia. Era una memoria storica formidabile don Mario: ricordava tutto e tutti, dall’ultimo battezzato a quanti vitelli erano nati l’anno in cui lui era venuto pastore di quella comunità. Ora era mezzo cieco e minato dall’artrosi; pur reggendosi in piedi a fatica, prima di scendere in città all’ospizio dei salesiani, volle benedire don Aldo e abbracciarlo a lungo.
Don Aldo si mise subito al lavoro. Era sua intenzione rivitalizzare la fede richiamando più gente possibile. Per Pasqua, aiutato da un gruppo di giovani e dal vice sindaco, in fondo un buon diavolo col vizietto di bere e di non andare a messa la domenica, organizzò una lotteria per raccogliere fondi e avviare il restauro dell’affresco del giudizio universale nella navata sinistra della chiesa parrocchiale. Si era anche rivolto al direttore della banca locale sperando di ottenere una consistente sponsorizzazione. In futuro avrebbe voluto recuperare gli altri affreschi nelle cappelle sparse sui monti fino a prospettare un percorso di sicuro richiamo.
Prioritario, però, sentiva di dover fare qualcosa per la piccola borgata di Frenè. Ora tutto l’anno lassù ci stava solo una persona, il vecchio Rino che camminava sciancato, ma che, anche negli inverni più rigidi, non era mai voluto scendere in paese. Quando nevicava, la strada per Frenè era sempre l’ultima a essere pulita dallo spazzaneve, e non di rado capitava che Rino restasse isolato per diversi giorni; però lui, scorza dura, non aveva paura di niente e di nessuno.

A fine marzo, un pomeriggio di sole, Don Aldo salì a case Frenè. Un paesaggio candido e incantato lo accolse. Lasciata l’auto, si avviò a piedi verso la baita dal cui camino usciva una bava di fumo. Rino era seduto davanti all’uscio in compagnia di Zagor, un pastore maremmano dal pelo bianco-panna, e masticava tabacco. Da lontano don Aldo salutò. “Mi chiamo don Aldo, disse, ma voi mi conoscete come Aldo, Aldo Blanc, il nipote di nonno Giustino. Vi ricordate?”
Rino lo guardò avvicinarsi. Erano anni che non vedeva un prete.
“State bene, Rino?” domandò don Aldo.
“Davvero sei Aldo? - abbozzò Rino trattenendo Zagor - Chi l’avrebbe mai detto che saresti tornato …”
“Sì, sono proprio io. Ne è passato del tempo …”
“Già, è passato proprio tanto tempo, - si fece malinconico Rino - ormai qui ci sto solo più io; con Zagor, con la Bianca che mi dà il latte per fare un po’ di formaggio, e con le galline nella stalla. Ma qui si sta bene, sai … anche se cammino tutto storto, io qui sto bene, è casa mia.”
Si scambiarono una vigorosa stretta di mano. Rino tacque a lungo prima di riprendere “Eri un bambino, la prima volta che sei venuto eri un bambino. Sono passati davvero tanti anni”
“Così è la vita.”
“Da qui li ho visti andare via tutti; raramente qualcuno ritorna, ma nessuno è più capace di restare a viverci … eh sì, sono proprio andati via tutti, chi prima chi dopo … e chi non è andato via, è rimasto per sempre!”
Don Aldo si fermò ancora a parlare poi concluse “Ora voglio andare a vedere la baita del nonno. E’ sempre là?”
“Sì, è sempre là. C’è da camminare nella neve marcia che è scesa domenica, - lo avvisò Rino - ma tu hai le gambe buone, non farai fatica.”
In fondo alla borgata la baita del nonno si ergeva solitaria come un gendarme in retroguardia; più avanti don Aldo intuì esserci le vigne, o meglio quello che restava dei terrazzamenti un tempo coltivati a vite. “Questi tralci torneranno a dare frutto”, giurò a se stesso cercando di individuare i filari secchi sotto un sudario di gelo.

In paese la vita scorreva tranquilla. Don Aldo seppe inserirsi in fretta e bene; la gente lo cercava, sapeva stare e parlare con i valligiani come se fosse uno di loro. E insieme a loro viveva il divenire delle stagioni.
Con la primavera, i versanti a sud dove sorgeva Frenè, come sempre furono i primi a svestire la coltre bianca. Don Aldo saliva spesso alla baita del nonno. Riaprì casa, rese subito funzionale la cucina; in quelle giornate di cielo terso e sole, quando l’aria però frizzava accarezzando la faccia, ripulì ben bene dalle erbacce il terreno intorno. Una sera, prima di scendere, Rino lo invitò a bere un bicchiere. “Assaggia, disse orgoglioso, questo è il vino della nostra terra, lo stesso che faceva tuo nonno.” Don Aldo assaporò quel succo d’uva lievemente aspro e disse “Se mi aiutate e mi consigliate voi, Rino, vorrei ridare vita alla vigna del nonno. E vorrei portare il vino che verrà all’altare, e farne il vino benedetto per la messa.”
“Bravo, - fece Rino - bravo, sappi solo che ci vorrà tanta forza. E costanza, e non arrendersi mai. Sono anni che la vigna è abbandonata.”
“Ce la farò, con l’aiuto del Signore ce la farò!”
E don Aldo già quell’anno ce la fece. Con l’aiuto del Signore, sì, ma anche con la forza delle sue braccia e i buoni consigli di Rino. Dissodò i terrazzamenti, strappò a uno a uno i rovi e le ortiche, nel tempo giusto diede il verderame sia alla sua vigna sia a quella di Rino; con stracci e vecchie latte che sbattevano al vento improvvisò due fantocci per spaventare gli uccelli. Intanto, sempre grazie a Rino e alla mani robuste di Matteo, un giovane della valle che studiava agraria in città, rimise in funzione la cantina interrata del nonno; recuperò il torchio e si fece portare su una piccola botte che i ragazzi del paese gli avevano regalato per festeggiare il primo lustro di sacerdozio.
A inizi ottobre raccolse il frutto del suo lavoro. Come nonno Giustino a suo tempo e come Rino ancora adesso, si caricò sulle spalle la gerla piena dei preziosi grappoli d’uva Avanà; gli bastò un mezzo pomeriggio per terminare la vendemmia. Nei giorni a venire, sempre sotto l’occhio attento di Rino, seguì la fermentazione fino a riempire il tino per tre quarti di mosto che arrivava a malapena a diciotto gradi di zuccherina.
Quell’anno ottenne un vino rosso dal profumo fresco di fiori e frutta e dal retrogusto appena asprigno. Né portò in canonica una tanichetta alla volta e lo usò in parte per bere un bicchiere a cena e in parte per la consacrazione nella messa.

Ad agosto dell’anno dopo don Aldo, aiutato da Matteo e da altri ragazzi, volle organizzare la festa dell’Assunta alla chiesetta di Frenè riaprendola per l’occasione. Da tempo ormai don Mario, vecchio e malato, non l’aveva più fatto.
La mattina della festa, a Frenè salirono tanti turisti e valligiani. Rino si emozionò nel vedere tutta quella gente sui prati e tra le case. Venne allestita la pesca di beneficienza per ricavare qualche soldo e salvare il tetto della chiesetta prima che fosse troppo tardi; in premio c’erano giochi per bambini, abbigliamento sportivo e prodotti locali. Don Aldo aveva offerto dodici bottiglie del suo vino facendosi preparare l’etichetta con su scritto “il vino del nonno” dal titolare del supermercato del paese. Quell’uomo, in piena crisi di coscienza dopo essere uscito indenne da un brutto incidente con il furgone, durante la confessione aveva rivelato alcuni trucchi che usava per truffare i vecchi quando andavano a fare la spesa da lui. Così, oltre alle preghiere e al giuramento di rigare dritto da quel momento in avanti, don Aldo gli aveva suggerito come dimezzare i prezzi senza farsi vedere da chi aveva raggirato; ma soprattutto lo aveva invitato a donare grappe e marmellate nonché a provvedere al vino per la festa di Frenè.
Alla fine, con la pesca di beneficienza, i soldi delle offerte e il ricavato della polenta servita a pranzo, ne uscì il gruzzolo giusto per pagare il materiale necessario a un intervento di emergenza sul tetto della chiesetta. Inaspettatamente la manodopera la pagò il proprietario del supermercato. “Dovete averla fatta ben grossa, - gli sussurrò don Aldo - ma il Signore tutto vede, e il Signore perdona. Lui sa …”
Di certo ci fu che per la festa dell’Assunta la borgata Frenè era tornata a popolarsi come da anni non succedeva; già a fine mese, però, le baite erano sprofondate nel loro silenzio rotto solo dal soffio del vento o dal lontano scroscio del torrente tra le rocce. Anche chi aveva ristrutturato casa, finite le ferie, era rientrato in città. Rino lassù stava di nuovo da solo tutto il giorno; pur zoppicando, andava al pascolo con la Bianca e con Zagor, badava alla vigna e al campo di patate, sfalciava il fieno, e, a sera, immobile sull’uscio, masticava tabacco guardando sui monti correre veloci le ombre del tramonto.
Don Aldo saliva a Frenè quasi tutti i giorni e due volte alla settimana portava il pane, il tabacco e quel poco d’altro che serviva a Rino. Un giorno, mentre ritornava dalla vigna, fu chiamato dal vecchio che lo aspettava seduto davanti casa: “Vieni dentro, voglio farti vedere una cosa.”
Nella penombra, sul tavolo di legno spesso, Rino aveva appoggiato dei pampini; più in là c’era un foglio di giornale steso a nascondere qualcosa. Rino lentamente sollevò la carta scoprendo l’immagine della vecchia baita del nonno composta con le foglie della vite disposte sopra una scatola di scarpe disfatta. Quell’immagine quanto somigliava alla baita di nonno Giustino!
“Come avete fatto?” si stupì don Aldo.
“Una volta scelte e piazzate le foglie giuste, le ho incollate con la resina sopra il cartone della scatola: di là non si staccano più. Ora si può mettere sotto un vetro e farne un quadro.”
Don Aldo si commosse, a stento trattenne una lacrima. “E’ bellissimo, Rino, grazie, grazie, ma … insegnatemi come si fa.”
“Magari un giorno, don Aldo, chissà.”

L’estate ormai scivolava verso l’autunno; una mattina i prati e le vigne di borgata Frenè si svegliarono intirizziti da una brinata precoce che faticò a sciogliersi durante le ore calde.
A fine settembre Don Aldo scalpitava per vendemmiare. Un giorno Matteo lo fermò in piazza e gli propose: “Don Aldo, aspetta a vendemmiare, lascia che i grappoli rimangano sui tralci, li raccoglierai d’inverno, a gennaio, una notte che la temperatura sarà di 8/10 gradi sottozero.” Il prete pensò che Matteo fosse fuori di testa e stava per dirglielo quando questi continuò “Quest’anno con la cooperativa tentiamo un esperimento, vogliamo fare il vino del ghiaccio.”
“Cosa?!”
“Sì, il vino del ghiaccio. Ci siamo già attrezzati nelle vigne di borgata Maddalena, abbiamo coperto i filari con una rete perché gli uccelli non mangino l’uva. Vieni a vedere.”
“Ma che cos’è?”
“Si lasciano su i grappoli fino in pieno inverno, il freddo raggrinzisce e disidrata gli acini però ne conserva il succo dolce; è vero, ce ne sarà pochissimo, ma quel pochissimo avrà un gusto unico, un concentrato di profumi e di zuccheri. Il vino del ghiaccio si fa molto in Canada e in Germania, e qualcuno lo produce anche in val d’Aosta e nel cuneese. Ci stai a provare con noi, don Aldo?”
“E se poi non viene? E .. per la messa … mica si può usare un vino così?”
“Ce la faremo don Aldo, ne sono sicuro! Chiameremo i giornali e la televisione per riprendere la vendemmia, daremo visibilità al nostro paese e alla nostra terra, sarà un bel modo per farci conoscere. Ci aiuterai? Sono sicuro che ce la faremo!”
Don Aldo accettò la sfida. Disse “Ce la faremo, con l’aiuto del Signore ce la faremo!”
Matteo si organizzò subito e già il giorno dopo aveva tirato una rete finissima anche sopra la vigna di don Aldo. In piedi a masticare tabacco, Rino guardò scettico quel gran daffare senza dire nulla.

Nella notte di gennaio stabilita per vendemmiare, a borgata Frenè, oltre agli inviati della stampa locale, salirono anche i giornalisti della televisione nazionale pronti a documentare l’avvenimento. Don Aldo, insieme ai ragazzi della cooperativa - tutti con le giacche a vento, i guanti e le pile frontali accese, passò tra i filari a cogliere i grappoli gelati. Dalla finestra Rino vide tanti lumini muoversi nelle tenebre della montagna e s’illuse che i vecchi abitanti di Frenè fossero tornati sulle loro terre. Gli venne voglia di uscire per andare loro incontro, ma una lacrima lo trattenne. Nel sonno, quella notte, si sedette fuori con nonno Giustino a fumare e a parlare del tempo andato proprio come a raccontarsi le emozioni di un viaggio infinito.

Dopo lunghi mesi di fermentazione naturale, un centinaio di bottiglie da 0,375 cl di vino del ghiaccio facevano bella mostra nella cantina della cooperativa. Una giusta percentuale spettò a don Aldo che, dopo averne lasciato un assaggio a Rino nonché qualcosa per la prossima festa a borgata Frenè, portò il resto in chiesa perché diventasse il vino consacrato nelle messe solenni.

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