lunedì 25 giugno 2012

Racconto “LA STRADA DEI VINI E DEI SAPORI” di Valerio Gamba per WINE ON THE ROAD

Valerio Gamba, di Soresina (CR), scrive di sé: “vivo a Cremona dove mi sono laureato in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio e dove lavoro nel campo dell’urbanistica e della pianificazione territoriale. Occasionalmente scrivo articoli per riviste locali e partecipo a qualche concorso letterario. Tengo un blog in cui parlo delle mie passioni: viaggi, territorio, letteratura, cucina e molto altro”. Valerio ha partecipato al concorso letterario 2011 di Villa Petriolo “Wine on the road” col racconto “La strada dei vini e dei sapori”. Racconto “LA STRADA DEI VINI E DEI SAPORI” di Valerio Gamba. La mia città nebbiosa è ormai alle spalle. Le prime colline per noi che – come Raf e Tozzi – siamo gente di pianura, fanno già vacanza, e ci sembra di essere entrati in un’altra dimensione anche se abbiamo percorso una mezzora di strada da quando siamo partiti. Ci concediamo il lusso di guardarla da quassù, quasi fosse il terrazzo di casa, quella nostra pianura, sorseggiando un calice di Ortrugo dei Colli Piacentini davanti ad un rustico vassoio di antipasti misti. Anche i sapori familiari hanno un retrogusto diverso quando sei al posto giusto; così questo bianco vivace, che tanto spesso fa bella mostra di se sulle nostre tavole, ce lo godiamo con più intensità. Il primo bicchiere è rinfrescante, toglie la sete, le fatiche, ti rilassa i muscoli. Ma devi imparare a dosare le energie, che la strada è appena cominciata. Ridiscendiamo la Val Trebbia, come Annibale, senza elefanti ma con Alfonso, che sarà il nostro trascinatore con le sue pacche sulle spalle, lui che nulla ha da temere, grande e grosso com’è. Noi non facciamo altro che farci trascinare dal suo entusiasmo, dalla sua voce tonante che urla “Dai, Vince!”. Se Alfonso è il trascinatore, Vince è la nostra guida. Ma che guida! Siamo sicuri di essere in buone mani? Ci parla di Roma, ci racconta che ci ha vissuto, tanti anni fa, che conosce a memoria tutte le strade e sa districarsi nel famigerato traffico capitolino attraverso delle scorciatoie che chissà come, tra quasi tre milioni di abitanti, conosce soltanto lui. Fu durante le sue scorribande laziali che scoprì il più celebre tra i vini dell’Alta Tuscia, l’Est! Est!! Est!!! di Montefiascone. Ce ne parla in prima persona quasi fosse lui il coppiere Martino, che segnalò entusiasticamente questo vino al vescovo Johannes Defuk e che, secondo la leggenda, ne stabilì involontariamente il nome, destinato a rimanere nei secoli. Est era il segnale che il coppiere lasciava nei borghi dove trovava del buon vino per il vescovo che l’aveva mandato in avanscoperta. “Est!”, c’è, lo grida anche Sandro quando gli raccontiamo la storia; condivide l’entusiasmo del coppiere, ma sarà meglio tenerlo a freno perché non tiene mai l’alcol e a Montefiascone potrebbe lasciarci le penne ben prima di quanto accadde al vescovo Defuk, deceduto proprio nel borgo dell’Alta Tuscia, si dice per il troppo bere. Scendiamo lo stivale, prendendo una pausa che consenta a Sandro di rimettersi in carreggiata. Il Nero d’Avola si sta già ossigenando nel decanter, e siamo in un clima di attesa come sul traghetto che attraversa lo stretto, con l’impazienza di toccare la terra siciliana ma la consapevolezza che bisogna rispettare i tempi e che Sud significa anche lentezza. Rocco sembra trasformato; finora è stato il più taciturno di tutti, ma adesso è diventato un torrente di parole, sarà il clima siculo o sarà invece il vino che gli scioglie la lingua. Dopo la prima sorsata inizia a raccontare della sua infanzia a pochi chilometri da qui. E’ un narrare evocativo, come evocativo è questo Nero d’Avola, e sembra anche noi di vedere la madre ancora giovane e prosperosa nel suo vestito a fiori che lo abbraccia e lo bacia energicamente. Dalla cucina ecco finalmente comparire Marta con un pentolone fumante tra le mani. Finora è rimasta in disparte, ma la sua entrata in scena accompagnata da un profumo di pomodoro, ricotta e basilico ha destato l’attenzione di tutti. Lei non sembra sentirsi a proprio agio al centro della scena; quello è il ruolo di suo marito. Infatti Vince tiene banco, immerso in una discussione con Rocco sullo stile di vita mediterraneo. Nel frattempo è già terra rossa, fichi d’india, ulivi secolari, case bianche, mare azzurro. E’ già sud-est. E’ già Salice Salentino. Ora è Maria, la moglie di Rocco, a fare gli onori di casa, snocciolando i nomi dei paesi di produzione, quasi a ricostruire un legame con terre mai dimenticate. Certi vini li chiamano “da meditazione”, e sento che i discorsi intorno a me si stanno facendo più impegnativi. Rocco, lo storico del gruppo, sta facendo un’analisi comparata delle dittature mediterranee degli ultimi cent’anni, dal Franchismo al Regime dei Colonnelli passando per il nostro Mascellone. Io mi lascio andare dal ritmo ipnotico di un tamburello, catturato da una donna dalla carnagione scura ed i lunghi capelli neri, che si avvicina senza nemmeno lasciarsi sfiorare, ed ho una bella voglia di girare in tondo, questa volteggia con la sua lunga gonna che lascia scoperti solo i piedi nudi e si lascia corteggiare all’infinito… L’Infinito, quello leopardiano, si è messo a recitarlo Vince, strappandomi dalla terra rossa e portandomi tra i dolci colli marchigiani. Siamo tra i vigneti degli eredi del grande poeta di Recanati; dietro quella curva c’è il mare, davanti a noi una bottiglia di Rosso Conero. Sandro mi si avvicina e cerca di farmi sentire il retrogusto di tabacco. “Dai! Cerca di concentrarti… Lo senti?”…Io sono convinto che l’abbia letto sul retro dell’etichetta, oppure gliel’ha detto Cristina, che ha fatto un corso di sommelier qualche anno fa… Ma a dire il vero lei sembra in tutt’altre faccende affaccendata; abbandonato l’iniziale contegno femminile, sta tenendo testa ad Alfonso in una sorta di reading poetico goliardico da osteria. Sembrano quasi quei poeti improvvisatori d’Appennino; certo che un po’ più di rispetto per il grande Giacomo, che ha tanto sofferto a pochi chilometri da qui, nel natio borgo selvaggio, potrebbero averlo… Tocca a me stavolta portarmeli via. Continuiamo la risalita dell’Adriatico. Mentre Marta riappare con un tegame di carne, tra le grida entusiastiche di Alfonso e la disapprovazione della vegetariana Cristina, ho scovato tra le bottiglie di Vince una di Terrano. Dice che gliel’ha portata un vecchio commilitone di Trieste. Ho insistito per aprirla, in memoria dei miei viaggi sul Carso. “Anche questo è vino di terra rossa”, cerco di spiegare a Maria. “Terra carsica. Ci sono delle inaspettate affinità tra questi due territori situati alle due estremità dell’Adriatico”. Mi promette che l’anno prossimo ci andranno, a Trieste, ma le promesse, a quest’ora e con il livello della bottiglia che continua a calare, lasciano il tempo che trovano. La stanchezza comincia a farsi sentire, ma abbiamo ancora una tappa davanti a noi. Ecco la famosa torta alle noci di Cristina. La accompagniamo degnamente col botto finale; tagliamo in due lo Stivale e scendiamo a capofitto tra i terrazzamenti delle Cinque Terre per una bottiglia di Sciachetrà. Attraverso il giallo ambrato del bicchiere mi sembra di vedere i contadini che raccolgono l’uva, le loro sagome che si stagliano sullo sfondo del Mar Ligure, la loro tenacia e la fatica nello strappare quotidianamente quella terra alla montagna. Grazie, Cristina, per avere portato questa bottiglia, grazie per le suggestioni che mi da… quasi mi commuovo a pensare al lavoro che c’è dietro a questo vino, e vorrei ringraziare anche loro, ringraziarli tutti; chi ha costruito i muretti a secco, chi ha impiantato le viti, chi ha raccolto l’uva, chi l’ha pigiata, chi ha imbottigliato… Guardo il soffitto a volta della cantina di Vince. Siamo al capolinea di questa nostra strada dei vini e dei sapori. Il silenzio è sceso nella stanza, dopo centinaia e centinaia di chilometri macinati in una serata, e ci fa capire che è l’ora di congedarsi. Li abbraccio ad uno ad uno, i miei compagni di viaggio. Poi inforco la mia bicicletta e pedalo verso casa, con il fanale incerto che illumina la mia notte nella mia nebbiosa città.

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