venerdì 30 luglio 2010

I racconti vincitori del terzo premio al concorso letterario di Vila Petriolo: "La scarpaccia" e "Il magico filtro di Vitale"

Da "A GRANGOLA!", cerimonia di premiazione del concorso letterario di Villa Petriolo 2010 La gaia mensa

Il giornalista enogastronomico Leonardo Romanelli premia Michele Raul Trojano e Fabrizio Giunta, terzi classificati, ex aequo, al concorso letterario di Villa Petriolo 2010 "La gaia mensa"

Pari merito a Fabrizio Giunta e Michele Raul Trojano al quarto concorso letterario di Villa Periolo "La gaia mensa": i loro bei due racconti si sono meritati la medaglia d'argento sul podio di "A Grangola!" ed una fornitura di magnum del nostro vino. Tanti complimenti ancora a Fabrizio e Michele!

Golagioconda - 23 06 2010 - I Vincitori del Concorso Letterario 2010 di Villa Petriolo

Fabrizio Giunta, nato nel 1950 a Camaiore (Lucca), è pensionato ed abita a Signa (Firenze). La ricetta protagonista del racconto è "la Scarpaccia della Saida". La Saida è la madre di Fabrizio, 95 anni compiuti.

Da I piatti de LA GAIA MENSA. Concorso letterario Villa Petriolo 2010



Nelle parole di Enrico Ghezzi la sintesi del giudizio espresso dalla giuria.
La scarpaccia. La lingua cerca una cadenza da cantastorie, tenendoti all’ascolto in un’aura di ricchezza povera, oscillando tra persona leggendaria e sapienza dell’orto. Reduci da crimee di favola, leggiamo con passo doppio anche noi. Bambini, la ricetta si tramanda e racconta per la nostra attesa, si ripete e dissolve nelle orecchie golose.

Da Giuria concorso letterario Villa Petriolo 2010



III PREMIO

“LA SCARPACCIA” di Fabrizio Giunta


Agnolo Bicicchi detto “Reduce”, la gamba sinistra assai più corta della destra, un orecchio arricciolato come una foglia di scarola, un occhio opaco come calce spenta, ricordi della guerra di Crimea, diceva lui. Vattelo a pesca se vero o falso ma ormai per tutti era il Reduce. Nessuno sapeva nulla di questa Crimea. I più astuti pensavano fosse la cresta dei cavalli, insomma una guerra fra cavalieri. I bimbetti lo seguivano di nascosto per vedere se fosse vero che quella gamba più corta ogni tanti passi lo portava a fare un giro completo su se stesso. Qualcuno giurava fosse vero altri ci ridevano sopra. In capo al giorno di giri su se stesso ne faceva tanti, specialmente se la favola quotidiana che andava narrando era assai divertente e gli fruttava copiosi gottini di rosso. “Con garbo e con rispetto” diceva alzando ogni gottino, “lo porto al labbro e me lo godo drento!” Cancellava l’immancabile cerchio rosso lasciato sul tavolo dal fondo del bicchiere e vuoto lo poggiava allo stesso identico posto, pronto per il fiasco.
“Anco settanta e sei sfregi rossi ha terso dal marmo e ancora prillava sulla gamba sana fino a far vento! Ma pur sempre in senno, vivo e verde!”
Non sempre mendicava, a volte cercava lavoretti.
“Compare, capite la gamba matta mi dole e mi martiria! Vangare un posso, ma cogliere la frutta volentieri!”
“Va bene, ma or che siete sull’albero fischiate la fanfara degli zuavi di Sardegna, che mi piace assai!”
“Fischio, fischio, ma ogni tanto fatimi ripigliar fiato!”
“Fiato, fiato.. hai voglia tu, ma a bocca chiusa!”
Tutti sapevano che si sarebbe servito, ma con riguardo, senza abusare.
Non pensate fosse un vagabondo, perché anche lo fosse stato nessuno lo avrebbe mai additato. Era l’ultimo bardo errante.
“Il porco del Ghianda è grasso come un tordo”
”Alla cantina di Geo è arrivata la botte dalle Pianore”
Notizie che portavano immancabilmente il Reduce a convergere sul bersaglio. Spesso era difficile riuscire ad ottenere un boccone, allora mugugnava: “O come mai nelle famiglie c’enno sempre più bocche da sfamare che braccia a faticare”

Quel giorno di fine giugno sarebbe entrato nella memoria, eppure la strada bianca che saliva ai Volponi era la stessa. Le buche dell’inverno appena rattoppate dal badile di Buccio, lo stradino, con pietrisco di cava rugginoso. I margini erbosi ben profilati, le scanalature degli sgorghi ogni venti passi liberate dalle erbacce. Oltre le siepi di biancospino i piccoli appezzamenti freschi di rugiada, curati come figlioli. Intorno alle case modeste, tirate su con sassi di canale, gli orti vibravano di colori e di aromi. La gloria di ogni famiglia. Ognuno vantava zucchine più tenere, pomodori più sugosi, cipolle amabili come il pane, carote dolci come il giulebbe, fave profumate di caciotta, porri grandi come manici di zappa. Un tripudio di vanità e d’orgoglio.

Ogni passo del Reduce una nuvola di polvere. Gamba sana nuvola grande, gamba matta nuvola piccola. Aiutato dal bastone avanzava deciso verso la borgata dei Volponi, immaginate voi perché era detta cosi. Nell’aia dell’Estè le fascine si accumulavano da giorni, lui conosceva bene la famosa focaccia dell’Esterina. Si era svegliato con quella sensazione, un sapore ormai lontano che andava rinverdito.
In lontananza sulla collinetta l’aria intorno al fumaiolo del forno vibrava. Bolla calda tremolante e vasta, da grande infornata. Pane, focacce e magari patate alla cenere.
“O Reduce, che siete in caccia?”
Il saluto di una donnetta tutta grinze lo scosse dai pensieri mangerecci.
“O Bianca, non v’avevo visto, lì nascosta tra le vostre belle cipolle!”
“Peccato” continuo il Reduce “che ci sono più maschi che femmine. Avete sbagliato la luna di semina!”
“Maschi? Quali maschi? Che maschi?”
“Via lo sapete anche voi che la cipolla che gira a maschio, non rende. Il cipollotto non cresce e il bigiglioro diventa duro e assai indigesto! Laggiù, quello dalle foglie più scure è un maschio, va svelto. Tanto ruba pane alle sorelle e non produce nulla!”
La donna con un guizzo s’era tuffata con la testa tra le foglie e spulciava le pianticelle con dita lunghe e nervose.
“Santa Vergine, è vero! Ecco il bigiglioro, è un maschio!”
Un gesto deciso e la cipolla fu sradicata e buttata di fianco alla proda.
“La più avanti ne vedo altre due, e ancora una e poi tre…”
Maschi di cipolla schizzavano fuori dalla terra come grilli e si andavano accumulando ai bordi del solco.
“Ecco le abbiamo levate tutte!” disse il Reduce, prendendo fiato come se fosse stato chinato a faticare.
“Proprio un bel lavoro di repulisti! Quelle rimaste verranno su sane e grosse come poponi!”
“Ecco a Voi!” disse la Bianca.
Tre cipollotti gli volarono ai piedi e finirono nella sua bisaccia.
Nuvoletta, nuvolona. Passo a passo su per il colle.
Alla curva del bosco d’acacie, oltre una siepe di rosa canina, c’era la più bella distesa di zucche che mai si potesse vedere. Tra le foglie di zucca spuntavano decine di boccioli e zucchine già pronte, ognuna col suo bel fiore giallo intenso. Farfalle e api entravano e uscivano in un delirio di nettare e di polline.
“Quelle si che mi farebbero comodo” penso il Reduce, scostando con la mazza le rose della siepe.
Nascosta dai panni che andava via via stendendo riconobbe la moglie di Biagio, il padrone dell’orto.
“Buon giorno Angelina!” le gridò agitando la mazza per farsi vedere.
“O Reduce, buon dì.. che siete in caccia?”
Allora è un vizio, penso lui, mentre scavalcava la siepe avvicinandosi alla donna.
“Avete qui delle piante che fanno impressione, chissà la notte che concerti vi fa il Linchetto quando zufola con le foglie di zucca!”
“Via! Non mi fate agitare. Che c’entra il Linchetto con le mie zucche? Di che zufolare parlate?”
Il Reduce rimase zitto e pensieroso.
“O Reduce, suvvia, perchè mi fate impressionare? Non ho nulla da spartire con quello spiritello dispettoso. Il Linchetto qui non si è mai visto!”
“Mi permettete di farvi vedere e sentire? Non faccio danni!”
“Avanti” disse l’Angelina avanzando preoccupata oltre i panni stesi.
Il Reduce scelse alcune foglie di zucca. Lavorando con il suo coltellino le ripulì dalle spine poi con un colpo preciso attento a non forare la canna separò la grande foglia dallo stelo. Praticò un’incisione netta e apri il taglio come fosse l’ancia di un clarinetto. Accostò alle labbra gli steli cosi preparati a mo’ di zufolo a canne e iniziò a suonare una nenia lenta e misteriosa. Rievocava il tuono, il frusciare del bosco, pioggia sulle foglie, vento tra le fronde, notti senza luna. Un pentagramma segreto e primordiale.
“Ecco questo è lo zufolo del Linchetto. Un lamento d’amor perduto”
Angelina riconoscente, aveva le mani colme di fiori di zucca e qualche bella zucchina.
“Ecco, prendete, ve lo siete meritato. Non ho mai sentito niente di tutto questo. Ci starò attenta. Ora che mi avete detto di cosa si tratta se mai lo sentirò non avrò paura!”.
Nell’aia dei Volponi l’Este’ stava coprendo con un telo l’ultima cesta di pane già caricata sul ciuco di Meo. Il Reduce ebbe un fremito. Era arrivato tardi!
L’Esterina, furbetta e maligna, mostrò le mani vuote e si strinse nelle spalle.
“Troppo tardi!”.
“Macchè! Sono proprio arrivato in tempo per usare il forno vuoto e caldo”.
“Che ci fareste voi col forno caldo? Vi cocete le vostre scarpacce polverose?”
“Affatto! Se mi date agio vi faccio stupire!”
“Fate pure!” rispose arricciando il naso.
Cipolle, zucchine e fiori di zucca furono lavati e sminuzzati, messi nel mastello con un goccio d’acqua e la poca farina rimasta sull’asse della spianatoia un pizzico di sale, scorta personale, il tutto mescolato con vigore. L’impasto denso venne steso in una teglia da focaccia ancora tiepida e unta, l’olio avanzato da altre teglie appena usate sgocciolato sopra e via nel forno.
“Bell’intruglio avete fatto. Che v’aspettate?”
“Mal che vada mi mangerò la scarpaccia, come m’avete consigliato voi!”

“Via, via bambini, è tempo di aprire il forno. La Scarpaccia è cotta!”
Disse zia Elide ai mocciosi seduti ai suoi piedi che attendevano golosi la fine della storia.

Da "A GRANGOLA!", cerimonia di premiazione del concorso letterario di Villa Petriolo 2010 La gaia mensa

Al centro, tra Luis Angel Naya e Sara Beinat, il vincitore del terzo premio Michele Raul Trojano


Michele Raul Trojano è nato nel 1968 a Napoli e abita a Pozzuoli.



Nelle parole di Enrico Ghezzi la sintesi del giudizio espresso dalla giuria.
Il magico filtro di Vitale. Buffo ‘racconto di natale’, o sogno di una notte di mezzo film, deforma e sganghera con parola irriverente una ‘storia di cinema’ famosa e improbabile. Un irresistibile Filicudi (mai) girato da Tina Pica a Filicudi, o una cernia (o cefalo, o sarago) anno zero, annamagnani strega che può solo nuocersi e intrigarci consegnando un filtro che è sugo per spaghetti magici. Tra volgarità e licenze, un’ingridbergman afflitta dai brontolii di fame del maestro, ma anche il registro malinconico, con l’innamorato neorealista che diventa svagato distaccato straniato.

III PREMIO

“Il magico filtro di Vitale” di Michele Raul Trojano


La ricetta degli spaghetti coi pomodorini “a pennula”? Nel medioevo i libri di cucina tacevano in proposito. Per chi avesse voluto cucinarli non c’era che una via: prendere un navigatore genovese, imbarcarlo su un vascello per le Indie sperando in un clamoroso colpo di scena durante il viaggio, pazientare per anni cinquecento, quindi ingelosire una focosa romana inerpicandosi su di un vulcano a braccetto con una svedese, filmare neorealisticamente la scandinava mentre seduce un pescatore che raccoglie pomodori, persuadere quest’ultimo a implorare una strega perché gli appronti un filtro magico sotto forma di sugo, e infine sottrargli la formula.
A combinare questi ingredienti hanno provveduto la storia, un film e un furto.
Io mi sono occupato del furto.
Procediamo con ordine.
Come tutti sanno i pomodori giunsero dall’America, ma la storia dimentica di dire che il primo viaggio di Colombo fu un fiasco: appena giunto ai Caraibi una delegazione di indigeni, anziché accoglierlo con canti e balli tipici, lo respinse in malo modo centrandolo ripetutamente con pomodori maturi. Deluso, Colombo tornò in Spagna ancora sporco di semini e si ritirò in campagna, gettando tra i rovi il suo completino da marinaio imbrattato. Caso volle che quei semi attecchissero, introducendo in Europa il prezioso ortaggio rosso.
Qualche annetto dopo, nell’estate del 1949, il regista Roberto Rossellini si reca a Stromboli per girare il film Stromboli. E’ fresco reduce da una tempestosa relazione con Anna Magnani e come attrice protagonista ha scelto Ingrid Bergman, ammiratrice del regista. Per ripicca la Magnani, rimediato un cast di fortuna, si fionda su Vulcano per girare il film Vulcano.
Breve inciso: sebbene la storia del cinema taccia per decenza, pare che anche Tina Pica abbia pensato di sbarcare a Filicudi per girare Filicudi, ma abbia poi desistito per un provvidenziale sciopero dei traghetti.
Tornando a Stromboli, il protagonista maschile del film non è un attore professionista. Si chiama Mario Vitale. E’ un pescatore di Salerno ingaggiato come manovale dalla produzione. Rossellini gli affida il ruolo principale al fianco della Bergman, non tanto per mera adesione alla poetica neorealista, ma a patto che gli peschi e cucini una cernia al giorno.
E qui le cose si complicano: dopo pochi ciak l’ingenuo Vitale è già bell’e cotto della Bergman, che però è avvezza a bazzicare star: nei film precedenti ha baciato nell’ordine Gary Cooper, Humphrey Bogart e Cary Grant, ora fa il filo al regista e per l’umile Vitale si fa dura.
O forse no.
Corre voce che in cima al vulcano viva una vecchia pazza (che somiglia vagamente alla Magnani) famosa per i suoi filtri magici. E’ quello che ci vuole, pensa Vitale, e durante una pausa delle riprese si arrampica sulle pendici del cratere. Lungo il cammino la sua attenzione viene attirata da un curioso pomodoro arancione, secco e grinzoso. E’il tipico pomodorino a punta eoliano, che prospera sui terreni vulcanici anche con scarsa irrigazione. I locali li conservano in ruote di vimini, legati in pendoli, a “pennula” appunto, per consumarli anche d’inverno. Vitale ha un’idea: ne raccoglie un cesto affinché la strega prepari un filtro speciale proprio col sugo di quei pomodori.
Quando raggiunge la caverna della strega è mezzogiorno. In paese si dice che la sua grotta sia direttamente collegata con le viscere del vulcano e che la megera sia dedita a pratiche stregonesche, come bere lava, comandare le eruzioni o assumere false identità (di recente la più gettonata è Anna Magnani). In realtà la casa non è una grotta, è una catapecchia malandata, e la strega (benché sia la Magnani spiccicata) è una gentile vecchietta con un incongruo accento romanesco. Quella che beve non è lava, ma quasi: è, tenetevi forte, Malvasia delle Lipari, un vino che Maupassant, di passaggio nelle Eolie nel 1885, così descrive: “Sembra sciroppo di zolfo, è proprio il vino dei vulcani, denso, zuccherato, dorato e con un tale sapore di zolfo che vi rimane attaccato al palato fino a sera: il vino del diavolo.”
La vecchia se ne scola un litro al giorno come se fosse orzata e non è granché lucida. Vitale le chiede il filtro, lei fraintende e cucina spaghetti con pomodorini a pennula per due. Vitale, convinto che si tratti di una pozione magica, annota su un taccuino le fasi della creazione.
Ecco cosa scrisse: soffriggere in una larga padella aglio e peperoncino; quando l’olio è rovente e sprizza lapilli aggiungere una decina di pomodori a pennula tagliati lungo l’equatore, adagiando gli emisferi nell’olio con la punta verso l’alto, come se fossero piccoli vulcani in attività. Resistere alla tentazione di schiacciarli: se vi azzardate a farlo vi scaglieranno fiotti piroclastici di polpa ustionante negli occhi. Cuocere a fuoco vivo; vigilare sulla cottura inclinando i vulcanetti e verificando l’incandescenza della camera magmatica. Aggiungere sale marino e una pioggia di origano, leggera come cenere d’eruzione. A cottura ultimata e a fiamma spenta, i pomodori, come per incanto, assorbiranno tutto l’olio. Il fenomeno innesca al loro interno un potenziale eruttivo di tipo pompeiano che può essere domato solo da alcune divinità greche minori preposte ai cataclismi, o mescolandoli agli spaghetti al dente e servendo in tavola.
A fine pranzo bevono un bicchiere di Malvasia, e poi due, e poi tre. Ubriachi, ridono sgangheratamente fino a sera, quando Vitale deve tornare per pescare la cernia per il maestro e somministrare il filtro alla normanna. Deve affrettarsi, Rossellini la sera precedente si è lamentato perché secondo lui la cernia non era una cernia, era un cefalo e neppure tanto saporito. E’ tardi, riesce a pescare solo dei saraghi smunti.
La coppia siede affamata a un tavolo appartato sul set. E’ lo stesso Vitale a servire: “cernia” olio e limone per Roberto, spaghetti con pomodori a pennula per Ingrid. E qui il fato ci mette del suo: Rossellini, ancora una volta deluso dalla cernia, è incuriosito dal sugo di Ingrid: le sottrae il piatto, divora i restanti spaghetti e con un filone di pane locale si produce in una prolungata scarpetta fino a smerigliare il piatto.
Questo non ci voleva. Ora anche lui ha inoculato il filtro.
Vitale è spiazzato, serve il dessert turbato da foschi presagi: porta una bottiglia di Malvasia e un cartoccio di cannoli con ricotta, dono della vecchia. Roberto e Ingrid si ingozzano spudoratamente. Sbronzi di Malvasia, decidono di appartarsi e allontanano l’importuno Vitale chiedendogli astutamente di portargli, per favore, il conto. Vitale, intontito dagli eventi, esegue l’ordine. Quando capisce il trucco è troppo tardi: il tavolo è vuoto, gli amanti sono spariti senza neanche lasciare la mancia. Allora segue le impronte nella sabbia verso il mare, presentendo l’amaro epilogo: non vede i due fuggiaschi, ma ne intuisce la presenza avvertendo indecorosi mugolii provenienti dagli scogli.
Il filtro ha funzionato, ma con la persona sbagliata.
Vitale è affranto, a dispetto del nome è morto dentro come un vulcano spento. Reciterà le ultime scene svagato, sviluppando un’interpretazione distaccata molto apprezzata dalla critica.
Girerà pochi altri film.
Lo incontro anni dopo in una taverna del porto, davanti a una bottiglia di fatale Malvasia. Mentre mi racconta la storia approfitto del suo dolore e gli frego la ricetta per rivelarla al mondo.
Ma prima di lasciarlo gli chiedo gli ultimi dettagli della vicenda.
“Per il resto dell’estate - racconta Vitale - cucinai pesce guasto con pomodori marci, eppure Rossellini mandava giù tutto senza batter ciglio. Odiavo quell’uomo: aveva accanto una dea e non pensava altro che al cibo. Una sera a fine lavorazione, verso l’ora di cena, Rossellini si aggirava pensoso sul set. Al suo fianco la Bergman era triste, si sentiva trascurata. In sottofondo si udiva un cupo, sordo brontolio.”
“Un’imminente eruzione del vulcano?” chiesi.
“No - disse Vitale - Era lo stomaco del maestro che gorgogliava per la fame.”

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