martedì 24 aprile 2012
WINE ON THE ROAD: il racconto “da quanto tempo siamo soli?” di Gabriele Caprioli
Gabriele Caprioli. "Nasce negli anni 60. Si diverte nei 70. Resiste a fatica agli anni 80. Si adegua negli anni 90. Il nuovo millennio presenta il conto ma lui non vuole pagare e così continua a scrivere, ora ha una casa ai margini della grande foresta di Milano, si è costruito un soppalco e lassù si sente come il suo animale-simbolo il bradipo e da lassù si illude di poter scrivere qualsiasi cosa".
Per “Wine on the road”, concorso letterario 2011 di Villa Petriolo, scrive il racconto “da quanto tempo siamo soli?”. Buona lettura!
Racconto “da quanto tempo siamo soli?” di Gabriele Caprioli.
la prima tappa o forse l’ultima
davanti a un oste barbuto e musulmano, è folle mi rendo conto ma è quello che vedo, quello che so
il barbuto mediorientale è lì che mesce vino rosso dal profumo di donna in amore, parole sue e noi ad ascoltare come bambini di prima elementare davanti al mistero della lettera H, ascoltiamo senza capire mentre in un angolo un altro terrorista mancato affetta del salame nostrano
“non è il mondo che ricordavo questo” dico io a Puffetta
lei è una spietata manager dalle tette rialzate, in completo scuro, è la nostra kamikaze, noi osserviamo e lei già beve a piccoli sorsi, senza togliere l’auricolare dall’orecchio sinistro, è da una vita che voglio chiederle dove ha preso quegli orecchini orrendi, si vede che è bigiotteria di bassa qualità, persino i cinesi si vergognano di vendere roba del genere e lei la indossa per andare a masturbare numeri in videoconferenza
“siamo in viaggio da tanto tempo, il mondo cambia se non lo facciamo noi” “e comunque io per i profumi ho talento e questo vino ha odore di lavanda e di tradimento” “cosa ha detto l’arabo?”
“odore di donna che ci sta”
“cosa vuoi che ci capisca quello, a casa avrà una di quelle mogli che sembrano un frigorifero coperto dal telo”
siamo in viaggio da tanto
Puffetta una sera di qualche anno fa, anni in cui ci credevamo ricchi, mi ha mostrato i suoi polpacci sodi e depilati, ci corteggiavamo vagamente dondolando su sgabelli argentati ai bordi di una enoteca piuttosto fighetta della Pianura, i calici con dentro il rosso scivolavano sul piano levigato del tavolino rotondo, ogni tanto io volontariamente toccavo il suo cristallo con il mio, nel farlo le nostre dita si sfioravano, c’era qualcosa di sbagliato in questo giochino infantile e non erano gli assenti, nello specifico i miei figli e i suoi ex mariti, forse di sbagliato c’era il sapore del vino, forte, denso, non in sintonia con l’ambiente
“questo è un vino da dirigente d’azienda cazzo duro”
disse lei all’ultima goccia
i polpacci lisci e palestrati a quel punto li avevo già sfiorati, indifferente all’invidia degli altri maschi, la donna che pensa di stupirmi perché capace di essere più volgare di me è una situazione così deprimente che quasi mi accascio, il mio calice da quel momento restò fermo, con una goccia di rosso morente sull’esterno e i miei pensieri in riavvolgimento rapido
riavvolgimento rapido, via
al primo secondo del primo bicchiere, come se, io fossi astemio, tu fossi vergine, se avessimo ancora un debito pubblico gigantesco tutto da creare e baci romantici che ci commuovono davvero, lacrime sode che scorrono lungo rughe accentuate dal bianco e nero, tipo le foto dei vecchi del paese che il Conte aveva appese alle pareti della sua umida casaccia di campagna trasformata in sacro rifugio per bevitori incontentabili, entrare lì dentro per noi ragazzi è stato quello che immagino deve essere stato per alcuni varcare la soglia di un bordello
il Conte ci trattava con innata arroganza, decideva lui per ciascuno, guardando in faccia, quale sarebbe stata la puttana in bottiglia per la notte e non potevi mica appellarti al libero arbitrio dinanzi ad un dio così capriccioso e iracondo, sebbene fossimo clienti e il nostro soldo di figli di papà lo lasciavamo sempre sul banco, ordinava lui il vino, quanto e come, ci concedeva il tempo per gustarlo e nel caso per fuggirne ma non accettava contestazione alcuna, adorava spendersi in liti furibonde con il malcapitato cliente che si offriva alla sua ira nobile e popolana, le origini bastarde del Conte erano incastonate in uno stemma bicolore dove convivevano la zappa e la corona, il destriero e il sorcio, questo era il suo spirito quando dava in escandescenze sublimi e volgarissime illazioni sulle nostre madri e la loro antica professione da strada e le tare ereditarie che discendono da malattie veneree contratte a furia di farsi sbattere dal re dei topi
una sera, non la prima, neppure la seconda, la millesima sera bevuta e benvenuta, ignari che al mondo ognuno ha il suo posto ma di posto c’è né in definitiva solo uno e andrebbe tenuto caro più del sangue, una notte, una sera divenuta presto notte ci siamo ribellati e come i sacri testi insegnano finimmo diretti all’inferno, scacciati per sempre e destinati a peregrinare senza pace da una cantina all’altra per il resto dei nostri giorni nel mortificante tentativo di riconsiderare il nostro rapporto con il bene e il male
di quella notte non è rimasto che il ricordo amplificato dalla distanza siderale, il Conte è defunto di certo, un calcolo approssimativo lo collocherebbe di poco sotto il secolo e la sua scorza maledetta non merita certo arrivare a tanto neppure in un mondo ingiusto per definizione, la casaccia e il vigneto e la magia di quelle uve toscane, il profumo della terra smossa, il sapore dei fili d’erba, li avranno ereditati nipoti di terzo grado, il Conte non poteva certo avere figli né fratelli
gente di città che non conosce la terra e il lavoro, hanno commercialisti e architetti a libro paga e al primo condono trasformano tutto in un agriturismo biologico con visite guidate per bambini che vogliono vedere come è fatta una gallina dal vero
gente detestabile in definitiva come lo siamo diventati noi, medici, avvocati, artisti e usurai, qualcuno ha smesso di bere per sempre, altri si concedono una birra al pub ogni tanto e se non è una bestemmia in chiesa questa non so cosa dire
una bestemmia in moschea
io e Luisone siamo reduci da questa storia e da nessun altra davanti all’oste musulmano che ci prende per il culo non ci stiamo, con questa manfrina del mondo che cambia il mondo diventa tutto identicamente brutto e il vino che ci hanno rifilato è una schifezza araba altro che profumo di donna mestruata
“io mi rifiuto” dice Luisone
sarebbe la prima volta in vita sua che abbandona del liquido nel bicchiere, vuole spaventarmi ma io so che prima o poi deve accadere, lo sappiamo, abbiamo abbastanza capelli grigi da aver visto la fine di tutto quel che può finire
guardo Puffetta, lei i capelli li tinge e sempre più spesso capita di sentirla parlare di chirurgia estetica, con una certa competenza, per il momento fa la parte di quella che figurati se io, ma le cose cambiano e non si rimpiangono mai abbastanza e questo per dire che abbiamo tutti l’età giusta per tradire, compagni di bevuta e amici, aspetto con una stupida ansia il giorno in cui mi troverò solo come un lampione a raccontare allo specchio del bar la storia delle balene stese al sole della Riviera o dei fantasmi della Carnia o di quella volta che abbiamo camminato, camminato
camminato, più di venti chilometri a piedi e non so quante cantine e non ci siamo accorti nemmeno
Luisone il giorno seguente ha dormito così profondo che pensavamo fosse instradato verso l’aldilà così io e suo fratellastro ci siamo chiusi in un grotto buio, che pareva appunto una tomba, per scriverne l’orazione funebre
abbiamo messo giù delle pagine belle dense di ricordi e aneddoti divertenti, servivano un bianco di loro produzione che tirava via diritto e noi dietro, quando ci siamo resi conto che era troppa roba abbiamo preso a prestito un pennarello rosso per eliminare il superfluo, storielle che potevano dare fastidio a Tizio e Caio e così facendo siamo arrivati a quattro righe di discorso, in pratica un telegramma, litigavamo per ogni singola parola
fortuna che Luisone è resuscitato verso sera e non ha mai saputo, è scaramantico
è in difficoltà, ora, percepisco che sta per accadere qualcosa di irreparabile, Puffetta no, l’arabo non beve perché è peccato
“ragazzi, vi siete accorti che qui non c’è nessuno?”
in effetti siamo soli, troppo lontano ci ha spinto il viaggio, troppo simile alla fuga per vedere una fine, un nuovo inizio
“avete idea di dove siamo?”
se tutti i luoghi sono infine uguali e insensati, il vino è la differenza, allora potremmo alzarci e uscire, non è impossibile
subito ci piglia il vento e una sabbia leggera, stordimento e paura, non vediamo anima viva tutto intorno
“da quanto tempo siamo soli?”
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