venerdì 6 luglio 2012
Racconto “Le fraschette: appunti di viaggio” di Aldo L. Onorati per WINE ON THE ROAD
Aldo Luigi Onorati, nato ad Albano, è residente ad Albano Laziale. Giornalista, dantista, storico della letteratura, direttore editoriale, ha collaborato a quotidiani e alla RAI-TV, terzo programma. Ha all’attivo romanzi tradotti in più lingue: La sagra degli ominidi, Gli ultimi sono gli ultimi, Nel frammento la vita, Lettera al padre (editi da Armando). Per “Wine on the road”, concorso letterario 2011 di Villa Petriolo, ha scritto il racconto “Le fraschette: appunti di viaggio”.
Racconto “Le fraschette: appunti di viaggio” di Aldo L. Onorati.
I Colli Albani e Tuscolani, cioè i Castelli Romani, hanno fama nel mondo per i loro vini prelibati. Le colline di lava porgono i fianchi al sole; il declivio lascia scorrere l’acqua verso il piano, tenendo così un po’ in sofferenza la vite, la quale proprio questo vuole per produrre grappoli saporiti.
Le cantine, nella mia fanciullezza, occupavano locali che oggi sono diventati bar, ristoranti, bazar, supermercati, carrozzerie, sale da biliardo. Eppure, si beve ancora, ma in modo e in luoghi diversi, sebbene le vigne avite siano identiche, ricacciate però verso il mar Tirreno, mentre dopo la guerra piccoli orti e vigneti ubertosi si addossavano ai paesi.
La nostra giovinezza ha ‘visitato’ le fraschette: osterie aperte pochi mesi l’anno, dove il vignaiolo vendeva il suo prodotto: sentivi la differenza enorme fra un’osteria e l’altra: i sapori variavano nettamente, perché diversi erano i tipi di terreno, di coltivazione, le qualità d’uve.
L’osteria, negli anni del secondo dopoguerra, fungeva ancora da centro d’una cultura orale, serbatoio di memorie, reperimento delle opra nel lavoro dei campi; era luogo d’incontro e divertimento. Tutto era arredato in modo semplice ed essenziale. Non c’erano né sedie né tavolini di plastica, ma solo lunghe tavole su colonnine di peperino, che fungevano da sedile comune, e altrettante palanche da muratori adagiate sui bigonci rivoltati: un ampio spazio si cui poggiare i bicchieri e le misure che i beverini richiedevano (un quartino, una fojetta, tre quarti, un litrozzo).
La gara esisteva fra i viticoltori, perché i clienti andavano dove il ‘prodotto’ era più saporito e sicuro. Oggi, chiuse le cantine in cui ogni agricoltore lavorava il suo nettare e lo vendeva, i contadini si sono organizzati in altro modo: direi che si sono industrializzati. Il grande sogno, avveratosi, era quello delle Cantine Sociali: il produttore porta l’uva a questi immensi laboratori del vino, e torna a potare, a suo tempo, i filari. Il vignaiolo ha rinunciato alla parte più importante e personale del ciclo di vinificazione: la trasformazione del grappolo in mosto, gli accorgimenti durante la delicata fermentazione, poi la svinatura, la filtratura, quindi il mantenimento attraverso la “rimboccatura” per non dare il destro alla temuta acidità volatile (il nemico sapore di ‘spunto’).
Le osterie nei Castelli ci sono ancora: pochissime, a dir la verità, le cui bottiglie ottime non si distinguono più da coltivatore a coltivatore, ma da Cantina Sociale a Cantina Sociale. L’industrializzazione ha portato a una sorta di globalizzazione (anche se parziale) del prodotto, di un certo prodotto che reca una specifica etichetta di riconoscimento (il fatto è che il ‘licor dell’allegria’ è tutto di pregio, ma io vado ancora a scovare i grottini dei miei coetanei che realizzano un vino con vari difetti, ma con la propria firma come l’autore fa con il libro o la pittura).
Mentre nei tempi del tram il tinello, la fraschetta, erano il centro d’una certa cultura (diciamo contadina e locale), un punto di scambio d’idee e ritrovo per il divertimento; oggi è solo un luogo in cui si compra la bottiglia da bere in casa. I cosiddetti “beverini”, che rendevano vivo il cantinone, sono spariti.
Ho viaggiato molto nelle osterie “antiche”, alcune delle quali, come quella paterna, filtrava il vino usando l’albume delle uova (come accadeva ai tempi di Orazio); era un altro mondo. Tuttavia, non essendo io un “laudator temporis acti”, ho solo un po’ di nostalgia delle risate salutari che i bevitori facevano scoppiettare nell’aria, pur in un’innegabile povertà di denaro (ma non di cuore). Oggi, però, pur somigliandosi fra loro i vini di marche diverse, quando sai scegliere il DOC vai più sul sicuro di una volta. Eppure, da buon vecchietto nato e cresciuto nelle fraschette dei Castelli Romani, ho una piccola mappa delle ‘osterie a tempo’. Con tutti i difetti che presentano, preferisco i pavimenti di terra battuta, le botti di doghe di castagno, la mancanza di termosifoni (tanto il vino riscalda da dentro lui stesso), ma voglio rimanere immerso nei viaggi della giovinezza, quando una fioca lampadina, in parte nascosta dalla frasca di leccio o di alloro, indicava che lì c’era l’osteria di Feliciano, di Bucione, del Moretto: e tu sapevi che avresti trovato un sapore simile a quello degli anni passati: così ti regolavi a comprare i cibi adatti a quel vino, a quegli amici che avrebbero trascorso con te una serata indimenticabile.
La prima volta che dai Colli Albani scesi a Roma, fu nell’immediato dopoguerra: un viaggio sul carretto di mio padre. Lo guidava lui, Feliciano, ma in realtà il mulo conosceva la strada ed era autonomo. Partimmo di notte, con la luna dietro le spalle, nel silenzio rotto dagli zoccoli del quadrupede e dal rullio dei cerchioni; qua e là i segni del conflitto, le buche, una mestizia che la toccavi nell’aria, insieme, però, alla speranza della ricostruzione.
A San Giovanni ci colse l’alba, dentro le mura. L’osteria verso cui eravamo diretti aprì di buon’ora solo per fare rifornimento di vino dei Castelli: mio padre, già prima della guerra, aveva come cliente quell’oste dal faccione osso e rotondo a guisa di un pomodoro gigante. Non c’erano problemi di parcheggio; l’animale fu legato a capezza a un palo; gli fu messo un sacchetto appeso al capo: conteneva avena ed orzo, che pasceva senza fretta e senza voglia di smettere.
Poi fu il tempo in cui, già ragazzo, dovevo sostituire i genitori dentro la nostra fraschetta, perché essi andavano alla vigna. Così conobbi un lavoro interessante: i bevitori erano clienti particolari, assai diversi da quelli che entravano al bar restando in piedi per consumare un caffè all’istante, e dalle donne che sceglievano la conserva, i bucatini sciolti, la coppa e la mortadella dal pizzicagnolo, il quale ascoltava con noiosa espressione il cicaleccio delle madri di famiglia che, magari, non pagavano al momento, entrando coi loro nomi nel quadernaccio nero dei “buffi”, cioè dei debiti.
Ho fatto l’oste supplente, ma ho imparato assai da quel lavoro tranquillo, lento, in cui si vendeva unicamente il vino, dalle dieci antimeridiane alla ventidue ora italiana (orario imposto dalla legge, ma –una volta chiusi i battenti e spenta la lampadina sulla “bandiera” e sul ramo di leccio-, i beverini rimanevano a chiacchierare e a ridere fino alle ore piccole).
L’osteria, nel viaggio del ricordo, era per soli uomini. Quando il pater-familias dimenticava di rientrare a casa, veniva a chiamarlo il figlio maschio, che magari si attardava pure lui al tavolo della mescita. Se non c’erano “uomini” in famiglia, la figliola maggiore dava voce al genitore, tenendosi a oltre due metri dalla porta. Si era agli anni Cinquanta.
Nei Castelli Romani le antiche dolci cantine sono scomparse, torno a ripetere, però sono state sostituite da osterie annuali, fornite di cibo, cucina buona e ricca di porchetta. Però il pubblico –grazie alle macchine- viene da Roma, come si andrebbe a una trattoria modesta, semplice, appositamente arredata alla meglio per dare il senso del passato (che non c’è più).
Le osterie della mia giovinezza fungevano da centro culturale, altro che! I bevitori, analfabeti quasi tutti, recitavano versi di Dante a memoria, ottave di Ariosto e di Tasso, qualche poesia di Leopardi e, soprattutto, Trilussa, Pascarella (Belli non era ancora di moda e non lo sarà mai nei Colli Albani).
Se sono diventato uno studioso di Dante, non lo debbo alla scuola, bensì alle ‘dissertazioni’ serie o a vanvera di quei poveri analfabeti che sono spariti nel vento degli anni insieme alle botti di castagno e agli osti allegrotti e panciuti…
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