mercoledì 30 luglio 2008

le rose dell'architetto


"Le rose dell'architetto", scritto da Giovanni Failla, è tra i racconti segnalati del concorso letterario di Villa Petriolo.

Complimenti all'autore!


Giovanni Failla nasce a Vittoria (RG) nel 1970. Risiede a Strasburgo (Francia).
Dopo l'impiego come ragioniere in aziende locali fra cui la Vinicola COS, dal 1999 si butta nel sociale: Orientatore Extracomunitari, ARCI Sicilia. Si legge nel suo profilo: 2002, scappo a Strasburgo con la francese, scrivo e m'improvviso: promoter, formatore, animatore, interprete, operaio...2008, Laurea Biennale in Lingua e Cultura Italiana, vivo con lei a Strasburgo, preparo la triennale per insegnare e un figlio.



racconto

LE ROSE DELL'ARCHITETTO

di Giovanni Failla


Il ronzio dei macchinari regna sovrano nel silenzio della grande sala d'imbottigliamento.
Mi muovo solenne e compassato come un sacerdote che distribuisce l'ostia ai discepoli.
Il mio lavoro consiste nell'incollare contrassegni sui cartoni di vino già pronti per le spedizioni. Oggi preparo quella per il Canada. Come sempre lavoro da solo. Il proprietario della cantina, il grande architetto Giorgio Straquadaini, “'U dutturi”, dice che a causa della crisi internazionale l'azienda deve ottimizzare le risorse. Così ha licenziato un pò di gente e ha abbassato lo stipendio a quelli che sono rimasti. Che volete farci? La situazione lavorativa in questa parte della Sicilia è talmente disperata che si accettano i compromessi più umilianti. Sui sindacati non si può contare e se li consulti ti suggeriscono di ringraziare Dio della fortuna di lavorare per una casa vinicola prestigiosa che dà lustro e ricchezza alla nostra terra.
Il grande architetto-manager in questi giorni è impegnato a visitare alcuni fra i più raffinati salotti d'Europa: per promuovere l'azienda, dice lui. Le malelingue sussurrano che più che i salotti, “'u dutturi”, visita le camere da letto.
Sulla quarantina, colto quanto basta per condurre una conversazione che vira immancabilmente verso i suoi vigneti, “'u dutturi” ama ostentare con ospiti e operai un francese nostalgico della buona, vecchia aristocrazia feudale. “Bon vivant” come ama definirsi, si è laureato in architettura coi soldi di papà e un bel giorno ha deciso di continuare la tradizione vinicola di famiglia sottopagando un giovane enologo di talento.

Al centoduesimo contrassegno mi prendo una pausa.
A volte mi concedo qualche innocente rivincita sulla vita praticando una sorta di esproprio popolare sui vini della cantina. Oggi apro una bottiglia del migliore. Scelgo con cura l'annata e sorseggiando mi perdo nella contemplazione dell''etichetta: tre rose rosse intrecciate su sfondo nero. Sono talmente belle queste etichette che, anche se stampate in serie, ognuna di loro sembra dipinta a mano. Il rosso fiammeggiante dalle tante sfumature sembra staccarsi dallo sfondo come una creatura viva e palpitante che lascia il suo mondo per lanciarsi nell'esplorazione delle profondità del cosmo.
Ogni volta che le guardo, queste rose mi ricordano una poesia rinascimentale studiata a scuola secoli prima. “Con la rosa”, diceva con entusiasmo il professore ormai quasi calvo, “il poeta simboleggia l'impeto della sessualità e la caducità della bellezza. Bocciuolo, carnosa, appassita, ogni stadio evolutivo della rosa rappresenta una fase della vita, ma anche il mistero e il dramma dell'esistenza”. Allo stesso modo le rose dell'etichetta sembrano appena sbocciate, ma lasciano intuire lo sfiorire imminente della loro sensualità. Ascoltando con attenzione quasi si percepisce il suono della caduta del primo petalo.
Il vino, la cui anima è cosi mirabilmente custodita e illustrata, sembra riprendere il vermiglio delle rose dipinte ed espanderlo in un concerto di odori, in una cattedrale di essenze. Mi viene in mente che forse la funzione degli uomini nell'universo sia di fungere da papille gustative di Dio, avendo quest'ultimo una certa praticaccia di enologia.
Ricordo i commenti di alcuni intenditori che sostenevano, sorseggiando concentrati e seri, di intuire un nonsoché della rosa nella composizione del “bouquet” del vino. Continuavano, intrecciando con entusiasmo una fitta trama di metafore e aggettivi per esprimere con le parole ciò che probabilmente avrebbero espresso più efficacemente scambiandosi un bacio con la lingua: tannini, affinamento, barriques, rotondità... A quel punto l'architetto si affrettava a spiegare che il “savoir faire” di “Le Rose” gli veniva da una tradizione familiare risalente addirittura alle colonie greche di Sicilia. Si dilungava poi nella spiegazione di una complicata vicenda di dei e ninfe. Per farla breve: c'è una ninfa disgraziata e innamorata di Apollo il quale, stufo e annoiato dalla signorina appiccicosa, la trasforma in roseto e tanti saluti. Guardacaso la trasformazione avviene nel vigneto dei supposti avi dell'architetto. Apollo, che benché farabutto sempre gran signore resta, pentito del suo gesto e per chiedere scusa alla ninfa, nel suo giro col carro solare si sofferma ogni giorno sopra il vigneto, benedicendolo con i suoi raggi e donando all'uva quel caratteristico sentore di rosa.
Ma la vera storia dell'origine di quel nome è un'altra: una sera che avevamo lavorato fino a tardi, l'architetto aveva voluto festeggiare il successo dell'azienda con un'abbondante innaffiata di vino. Mezzo ubriaco, mi aveva confidato il suo progetto di realizzare un “cru” da vendere a prezzi da capogiro. Questo vino l'avrebbe chiamato “Le Rose”, in omaggio alla sua più grande passione dopo i soldi: le donne. “'U dutturi” collezionava donne, ricordandole poi col nome di “rose” per giustificare poeticamente la superficialità di quelle storie di sesso.
A volte le vedevo arrivare in cantina le sue rose. Stangone del belmondo con le quali l'architetto si chiudeva in ufficio dopo avermi raccomandato di non essere disturbato. Altre volte, le rose le coglieva direttamente fra il personale della cantina. Erano studentesse che lavoravano alla vendemmia o stagiste e segretarie che si portava dietro nei suoi “giri promozionali”. Immancabilmente, al ritorno, le impiegate si licenziavano o venivano cacciate con una scusa. I legami dell'architetto con la politica e con la malavita locale lo mettevano al riparo da qualsiasi vendetta delle famiglie delle ragazze.
Io, da quelle storie ne sono sempre restato fuori, fingendomi sordo, cieco e a volte anche cretino, per non perdere il lavoro. Solo una volta sono stato sul punto di reagire.
Quella volta la rosa si chiamava Claire. Era arrivata dalla Francia in autostop, con un'amica, attirata dalla prospettiva di lavorare alla vendemmia e visitare la mitica Sicilia. L'architetto l'adocchiò appena arrivata e saputo che era una studentessa di belle arti le propose di lavorare alla progettazione delle etichette. Si rivelò un vero talento. I suoi disegni avevano la forza e la sensualità del vino e della terra che l'aveva sedotta.
Claire era bella e gentile come la primavera. Me ne innamorai subito. L'alito del suo italiano incerto ed il fuoco dei capelli rossi avevano su di me l'effetto di una ventata di scirocco: mi surriscaldava il corpo e mi sconvolgeva la mente. Ma lei era rimasta letteralmente ubriacata dalle chiacchiere dell'architetto. Ingenua e fiduciosa non si rendeva conto che era destinata a diventare una delle tante rose.

Un giorno in cui eravamo soli in cantina provai a parlarle, a metterla in guardia, ad esprimerle i miei sentimenti. Ma forse per le difficoltà linguistiche o magari per la mia timidezza, le parole mi si inacidirono in bocca e mi ritrovai ad essere il confidente della sua passione amorosa per l'architetto. Sentii una rabbia nera salirmi dallo stomaco, ma che potevo fare?
Fu allora che “'u dutturi” rientrò e lei corse trepidante fra le sue braccia. In quel momento ebbi una specie di visione: lui, un grosso e bavoso cane nero che stringeva fra le zampe lei, una delicata ninfa dai capelli rossi. L'architetto si chiuse in ufficio con Claire abbaiandomi che non voleva essere disturbato. Che potevo fare? Niente, e niente feci. Prelevai dalla cantina una cassa di vino e tornai a casa a prendermi la più magnifica e vigliacca sbronza della mia vita.
Mi misi in malattia per tre giorni. Al mio ritorno lei non c'era più. Al suo posto c'era un'etichetta:
tre magnifiche rose intrecciate su sfondo nero.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Divertente, e nello stesso tempo ricco di significati, gettando uno sguardo nel sito della Cos pare di intendere anche qualcos'altro... che dire, da siciliano a siciliano, in bocca al lupo per i tuoi progetti

silvia ha detto...

tanti auguri e complimenti a gianni anche da parte nostra!

Anonimo ha detto...

Grazie mille per i complimenti e per avermi dato l'occasione di partecipare. Riguardo al mio vero lavoro in azienda, il racconto non ha niente a che vedere con la realtà, solo qualche spunto e qualche atmosfera che mi sono divertito a rievocare in occasione del concorso.

Gianni

silvia ha detto...

Ciao Gianni e benvenuto!
Ancora tanti complimenti...atmosfera più che verosimile...
A presto, grazie a te per aver concorso con il tuo bel racconto.

silvia