lunedì 4 agosto 2008

inebriamenti...



I complimenti di Villa Petriolo a Roberto Bellini, autore di "Inebriamenti", racconto segnalato per "I giorni del vino e delle rose".

Roberto Bellini è nato a Marradi (FI) nel 1953 e risiede a Pontelungo (PT). Consulente enogastronomico e del gusto, collabora con le riviste del settore enologico De Vinis (rivista nazionale Associazione Italiana Sommelier), rivista regionale Toscana A.I.S., Bibenda e Accademia dei Vini (AIS Japan). Dal 2005 è Ambassadeur du Champagne Italie C.I.V.C.


racconto

"INEBRIAMENTI"

di Roberto Bellini



Io che non vivo senza te …, dello chansonnier Pino Donaggio, usciva, con un suono striminzito e ranocchieggiante da un Radiomarelli avvolto in uno chasseuil in legno, che dava un colpetto chicheggiante ad una cucina agreste. Mio zio lasciava, come al solito, una scia fumosa di schietto sigaro toscano triturato e alloggiato nella pipa consunta; il fumo usciva filtrato dai suoi baffi con una soavità così aerea che sembrava immobile. Per la verità non mi pareva che quel fumo fosse puro tabacco, ho sempre pensato ad un mix plasmato anche dai vapori del vino Sangiovese e dell’Albana, di cui ricordo ancora un colore rossiccio, come il manto della volpe e tante bottiglie a sonnecchiare, immerse nella sabbia, nella parte più bassa e buia di una umida e malsana cantina. Anche quell’anno, era il 1965, stavo trascorrendo gli ultimi giorni delle vacanze scolastiche in Romagna; i miei genitori pensavano che una sana attività contadina, dopo un periodo balneare, mi ritemprasse in quello spirito vagabondeggiante che mi ha accompagnato nell’allevamento esistenziale e poi s’è trasferito in un pensiero meno acerbo.
In quegli anni, noi marmocchi, indossavamo i pantaloni corti e le gambe erano così secche che i miei stinchi assomigliavano alle canne che sostenevano i tralci delle viti. Ogni mattina il profumo della ruralità mi svegliava senza rumori metallici; coniglio o pollo in umido alle erbette selvatiche, con fette di pane a scarpettare il piatto, era la consueta colazione, fatta prestissimo, a combinar la fioca luce con il riverbero di un sole che non avrebbe illuminato il casolare fino alle dieci. E poi vino, e non caffellatte, semmai un caffè preparato nella napoletana, al fuoco delle braci del camino. Purtroppo a me era consentito bere solo acqua: troppo giovane per l’alcool; ma i germi di una immaginaria rivoluzione con le enologiche rose nei cannoni stavano già ansimando nei miei titubanti pizzicori.
Come ogni mattina, era la prima decade di ottobre, cominciava il rito della vendemmia. In quell’epoca non c’erano le macchine a camminare le vigne, si andava nella stalla, si addobbavano due vacche, bianche e ornate da lucidi cunei cornuti, si agganciavano al carro riempito di lunghe casse di legno a forma rettangolare, nerastre nel colore, nette a tal punto da irrorarsi in riverberi di guscio di cozza. Era una viticoltura vaccina e a braccia. Non comprendevo allora perché si spargesse tanta frenesia ed energia nella giornata, la mia curiosa indolenza mi impediva di resistere a lungo nel taglio dei grappoli, preferivo la parte dell’accoglienza in cantina, dove non regnava la pigia diraspatrice e la pressatura era soffice perché prodotta dal peso di altri bimbetti come me.
E’ in quell’anno che iniziai ad odorare le essenze della vinosità, dell’inebriante vapore del “sanzves” e del colore che macchiava la pelle delle gambe, disegnando rivoli dalla tinta petalo di rossa rosa, per profumarsi in un floreale infinito, quando il sapone di Marsiglia scivolava sui pori per illimpidire la cute.
Il ritorno degli zingari vendemmianti era una vera festa, incontaminati sorrisi sbocciavano come rose di maggio sui volti accaldati di uomini e donne. Io credevo di vivere in un favola, immaginavo quei signori della vendemmia come masnadieri o pirati, che si rifugiavano nella tana dopo aver predato i campi invasi da pancate di filari, che si spartivano frizzi e cibi e sbevazzavano fino a notte tarda, raccontandosi l’un l’altro dei particolari di vita degni di un gossip d’altri tempi: la tivvù non c’era e l’intermezzo pubblicitario era il brindisi nei francesini, direttamente dal fiasco impagliato e più volte riciclato. Non so’ che qualità avesse quel vino, so’ ch’era bianco, quello della veglia (véggia in dialetto) vendemmiale, di certo una Albana rossiccia, che entrava e usciva dallo stesso fiasco per giorni e giorni, tanto che mi chiedevo che fosse un fiasco senza fine, o un infinito fiasco. La curiosità di quel fiasco fu presto esaudita da un’indagine dal facile epilogo: direttamente dalla botte si spillava, alla bisogna, nel solito fiasco, la quantità di vino per riempirlo.
Il fatto di non dover bere quei vini mi riempiva di istinti sovversivi, a frenarmi era l’odore dei loro aliti, da me inteso come acetoso e asprigno.
I giorni passarono e il tino cresceva di volume e di calore; il primo stanco sobbollimento lasciò il passo a un brusio più rumoreggiante, tutt’intorno si spandeva un aroma di triturati acini, dolcissimi nell’odor, come lo sciroppo di rose. La mia curiosità su ciò che accadeva in quel largo tino troncoconico prosperava, niente volli chiedere ai villici; é sì, pensavo in quel tempo che vivere in città significasse essere superiore: beh, cacchiate molto puerili.
Poi venne finalmente il giorno del sangue di fragola e di rosa, dell’inviolettato e dolcissimo profumo fermentatosi dalla natura, di un qualcosa che poi compresi come “atto a divenire”, e più tardi ancora “fatto per il divenire”. Quel succo che sembrava uno sciroppo di more selvatiche diluito, poi scoprì chiamarsi mosto, attirava la mia immaginifica invasione di una realtà che ancora non comprendevo e decisi, non visto, di sorbir quel succo. Dolcissimo mi parve, come marmellata spalmata sul pane, inebriante il ritorno di sapore, illuminante in tutti gli attimi in cui stordiva le mie orecchie, con un ronzio delicato e insistente e si impossessava della mia volontà di essere partecipe di ciò che mi stava accadendo. Assaggio dopo assaggio mi ritrovai non più in grado di decidere delle mie immaginazioni, non riuscivo più a abbinare la favola alla realtà, avevo perso l’idea della sovversione, della fierezza di aver disubbidito a qualcuno; i lunghi lanciafiamme del tramonto aranciato e violaceo si impossessarono delle mie pupille e posero fine ai miei barcollamenti labirintitici.
Fu la mia prima scuffia enologica, beata e incontrollata, la mia mente favoleggiava in giardini immaginari, come roseti, aleggiava in una situazione razionale priva di gravità e uno dei timori più grandi che mi attanagliò, fu quello di perdere la facoltà di sognare ad occhi aperti, perché rubatami dall’incontrollato che mi pervadeva.
Quel senso della meraviglia non conosciuta, l’abbinai più avanti ad altre scoperte esistenziali, tipo il godere del sesso e l’eccitazione per la vittoria.
Ricordai che il “Doppio Rhum” dei fumetti beveva caffè nero per smaltir l’eccesso, così accadde anche a me, con quel liquido nero e amaro, che allora aborrivo, e il solo pensiero di bere mi procurava un senso di fastidio. Il passaggio dal paradiso artificiale di baudleriana memoria, alla realtà riluttante nei conati, generò in me un senso di rigetto e di opposizione, un elasticizzato fastidio che attanagliò il mio allontanamento dal vino per molti anni.
Quel sangue di fragole e rose lasciò però una traccia indelebile nella corteccia della mia memoria, un ricordo che procurava un batticuore, identico all’atto di accostare le labbra su quelle di una donna molto desiderata.
Fu come allontanarsi dalla prima cotta giovanile, e far promesse di non volersi innamorare più, poi ti ritrovi a comprar rose rosse e presentarle alla desiderata con un celato senso di sconvolgimento interiore, perché ti vedi esposto a offrir te stesso e temere i dinieghi. Infine, eccomi spensierato a riappropriami di quelle incertezze, sfogliare i petali di molte rose intellettuali, distillare le gioie delle emozioni regalando brindisi e sorrisi, odorando il vino come vitale assenzio e non temendo il suo confronto birichinamente alcolico. La maturità può presentarsi anche con un ipocrita auto controllo, ma il controllo spesso impensierisce i sorrisi, e il vino e le rose non son raccolti per meditare l’introverso, ma per eternizzare l’esuberanza e la rigogliosità della vita. E i canti campestri di quell’anno non sono ancora usciti dai nastri della mia memoria, tanto che potrei cantare: “io che non vino senza te”.

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