lunedì 4 agosto 2008
la casa dei vedovi
Silvestro Lega, Un dopo pranzo, 1860, Pinacoteca di Brera
Con il racconto "La casa dei vedovi" di Miriam Casalini Serni termina la pubblicazione dei racconti segnalati da Villa Petriolo per il concorso letterario "I giorni del vino e delle rose". Complimenti a Miriam e a tutti i partecipanti, i cui racconti, tutti, verranno diffusi su Divinando i prossimi mesi.
Miriam Casalini Serni è nata a Firenze e risiede a Panzano in Chianti. Appassionata cultrice di memorie di vita paesana e di tradizioni toscane, ha pubblicato: “Dal tetto al pagliaio. Bricciche del vecchio Chianti”, Edizioni Pagnini e Martinelli, 2001/2002, “La triste storia della Mucca Pazza. Funerale della Fiorentina”, “Cuore di luce. Storia di un trapianto di cuore”. Ha collaborato, inoltre, con racconti mensili, all’Informatore Coop Firenze e al settimanale Metropoli. Ha vinto il secondo premio Slow Food “Galeotta fu la cena” con il componimento “I’ mal di’ lesino”; ha vinto, nel 2002, il premio del concorso di GoWine e La Nazione “Il vino e gli over 50”, oltre al premio del concorso ACI 2007 – Automobil Club Firenze e al premio del concorso di poesia CALCIT , aggiudicandosi la Medaglia del Presidente nel maggio 2008.
racconto
"LA CASA DEI VEDOVI"
di Miriam Casalini Serni
Facevo villeggiatura in un agriturismo in collina. Avevo dovuto portarmi dietro Tigre, il mio gatto, non avevo nessuno a cui lasciarlo, e poi era la mia compagnia.
Per quante precauzioni avessi preso a scanso di fughe, un giorno, il lazzerone, sentita aria di libertà, era evaso.
Nel corso delle feline ricerche seppi che era stato visto aggirarsi nei pressi della “Casa dei Vedovi”, dove pare ci fosse una micetta da corteggiare.
Vi andai munita di allettanti bocconcini di “ciccia”.
Era pomeriggio inoltrato.
Nell’attesa che le gentili persone di quella casa me lo recuperassero, passeggiai un po’ attorno. Ammirai il panorama, vigne, olivete, guardai il vento piegare le punte dei cipressi, aspersori benedicenti la campagna. Passo dopo passo mi ritrovai in uno
spazio fatato.Orto o giardino?
I pampini di una grande pergola mossi da un lieve venticello, scomponevano la luce del sole che vi filtrava attraverso, pareva giocare a nascondino facendo sperluccicare acini d’oro di uva matura.
Stavo in un quadro di Silvestro Lega.
Altra magia: gli odori. Emanavano dal muro caldo e sbrecciato azzurro di ramato che sosteneva una spalliera di rose spampanate, quasi sfatte, complici in alchimia con malvoni, cespugli di cedrina e violacciocche. Più lontano, ma distinto, afro di conciaia. Un ronzare di api ritardatarie affaccendate a bottinare, in gran crescendo il frinire delle cicale. Tutto questo mi riportava a istantanee di memorie infantili nell’orto di una canonica.
Recuperai il mio gatto riottoso, anzi, inca..volato nero, per ritrovarsi dietro le grate della gabbietta dopo tanta salace avventura.
Ringraziamenti e saluti.
“L’aspetti signora, gli si coglie dalla pergola du’ be’ grappoli d’uva salamanna, la sentirà bona. Poi la ci rammenta.”
Li rammentai per la cortesia e per la bontà dell’uva.
Mi erano rimaste due curiosità.
La prima la soddisfece il dizionario, “salamanna”, avevo pensato a un toscanismo. Infatti : “...pregiata uva da tavola a grossi acini ovoidali polposi e dolci, dal nome di S(er) Alamanno Salviati che ne importò il vitigno in Toscana dalla Catalogna nel secolo XVIII°.”
La seconda, lo strano nome del luogo, “la Casa dei Vedovi”, me ne spiegò il motivo la padrona dell’appalto in paese.
Vi abitava una famiglia di contadini, padroni del loro podere da generazioni, che l’avevano sempre coltivato direttamente. Facevano un buon vino, spremuto dall’uva di vigne allineate su morbide colline che si intersecavano su incostanti livelli, esposte a mezzogiorno proprio come Dio comanda per dare il vino migliore.
Solo al Catasto e sul carro agricolo rosso sbiadito, era scritto il nome del podere, un nome gaio e poetico, “Pero Giugnolo”. Antica toponomastica di luoghi senza un perchè, o forse dimenticato nei secoli, in questa Toscana dove la poesia sta di casa.
Ma ormai per tutti quella era la “Casa dei Vedovi”.
Erano rimasti prematuramente vedovi i due fratelli, le mogli morte alla svelta, una dietro l’altra, poverette.
Un affanno tirar su quell’unico figlio, l’altro era volato in cielo con la sua mamma, senza aver toccato la terra con i piedini.
Gente faticatora, Cesare e Omero, con la passione per il podere, per la campagna, coltivavano la vigna alla maniera antica, con quel magico equilibrio fra terra e cielo, retaggio di una sapienza ancestrale.
Potare, piegare i tralci al tempo giusto, con un occhio alla luna, uno speranzoso al cielo benigno, i trattamenti per combattere tutti quei nemici che fan danni, poronospora, muffe, parassiti, quando la troppa pioggia, quando la siccità... la grandine!
Il Vino. Bevanda. Alimento. Sangue vivo della terra.
Il tempo che passa, il figlio, Marco, ormai grande, studente di agraria ed enologia era la gioia del padre e dello zio. Zio? Due padri erano, due genitori di un solo figlio, il loro orgoglio.Il ragazzo ne sapeva di cose.
Aveva ereditato amore alla terra, alla vigna
Cominciò presto a dare suggerimenti per migliorare il vino già buono.
A volte il giovane cozzava con antichi pregiudizi, ma anche se dubbiosi, Cesare e Omero si adeguavano volentieri.
Quando il figlio saggiando il vino diceva di bouquet, di mora, di tabacco, di tannini, i due scuotevano la testa: “Quante storie, il vino è buono, sa di quel che deve sapere”.
E Marco: “ Prima della vendemmia si devono togliere alcuni tralci per fare assorbire ai grappoli il sole più pieno.”
“Codesto l’abbiamo sempre fatto.”
“Lo so, infatti è un’abitudine di secoli. Lo dice anche Marco Bussato, alla fine del 1500 in un suo manoscritto che ho trovato alla Biblioteca Nazionale...”
I vedovi si guardano negli occhi compiaciuti. Loro non sanno di manoscritti, ma conoscono un proverbio: “ Dice la vite: fammi povera, ti farò ricco e felice”
Marco ogni tanto ha idee un po’ spinte.
“Si devono eliminare i grappoli stenti e guasti.”
Questo no, non possono accettarlo. E’ per loro una sofferenza, uno spreco.
Comunque ora il prodotto è davvero migliore, uniforme, abbondante, richiestissimo. Si può imbottigliare ed etichettare con la dicitura “ Podere Pero Giugnolo”.
Un giorno il giovane portò a casa due dozzine di cespugli di rose con il loro “pane”, acquistati a un vivaio Pesciatino.
“Dove li vuoi piantare?”, chiesero i due genitori
“A capo dei filari della vigna. Ci staranno bene.”
I due fratelli ricordarono allora che il vecchio nonno Simone parlava di questo uso antico. Un “roso “ nella vigna era una vigile sentinella d’avanguardia per la sanità della vite. Se il “roso” dava segni di sofferenza, anche le viti si sarebbero poi ammalorate, cosìcchè si doveva provvedere subito alle cure del caso.
Con i nuovi trattamenti preventivi che il figlio attuava non c’era bisogno di quell’espediente a tutela delle viti, ma l’idea piacque senza riserve ai due fratelli.
Il pensiero di un “roso” nella vigna li conquistò, sapeva di buono. Tradizione e innovazione
Come in una danza il vino arrubinava il calice mosso da mano esperta, sprigionava intriganti fragranze e sapori. Ora avrebbe rivelato anche un delicato sentor di rose.
Ero ormai entrata in confidenza con quella brava gente, onorata e felice per l’amicizia che mi dimostravano. Seppi la loro vita, ammirai i vigneti, la cantina. “Desinai” nella grande cucina.
Centellinai il loro vino. Svelava in bocca un’emozione, una festa. Scendeva “...come una cascata di seta episcopale...”, invadeva lo stomaco di amabile tepore.
Ascoltai la storia dei “rosi”, l’antica e la moderna.
Dedicai loro una poesia.
“ Ho sognato una rosa...”
“ Il tralcio reciso che geme
salute mi reca,
non pene.
Sento l’acqua d’aprile
che fruscia
tra pampini e foglie,
il sole l’asciuga, le scrolla,
ci mette fastelli di luce.
Io suggo
da terra e da cielo la vita.
Va lenta la giostra del tempo
co’ cicli che ‘l tempo comporta.
Anelo
al profumo d’un fiore.
O rosa,
ai giardini rapita,
non fu confine
tra reale e sogno.
Un refolo di vento,
muove lieve nell’aria
odor di rosa.
E io lo chiudo in me.”
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