sabato 30 agosto 2008

l'arazzo del vigneto


"L'arazzo del vigneto", il bel racconto di Vito Ventrella che pubblichiamo oggi per "I giorni del vino e delle rose".

Vito Ventrella è nato a Modugno nel 1942, dove risiede. Ha pubblicato “Il gatto Pik” (Einaudi, 1971), “Affabilità” (Einaudi, 1979), “Un albero da marciapiede” (L’Obliquo, 1993, Brescia), “Il pudore di Ares” (Einaudi, 1995), “Terminal” (BESA, 2004), “Amor di pietre ritte e sepolte” (Lacalamita edizioni, 2005, Modugno), “Canto all’amicizia”” (L’Obliquo, 2007, Brescia). Collabora attualmente alla Gazzetta del Mezzogiorno.


Racconto

"L'ARAZZO DEL VIGNETO (in cui si accenna alle nozze di Vinolupo)"

di Vito Ventrella



Il mio nome è ViNo e questa è la valle dove fui concepito. Qui, nel ’42, uno sguardo di vigneto stringeva a sé i suoi filari, incanto dei fittavoli che ne adoravano le pose, la danza, gli ospiti leggeri venuti in volo ad addolcirsi l’ugola, i vermi senza canto né voce, le vitree lumache che si dissetavano ai suoi pampini, qui il Sole si gettò tra le gambe di una fanciulla, la dolce Uva. Un Sole che allora aveva la stessa allegria di un ingenuo sordomuto. L’amore contadino gli era simile. Mio padre, in piedi accanto al pozzo, è questo ramo d’olivo che gli pende dall’inguine, mia madre è questa foglia di fico, sorella dei pampini che in questo arazzo mentirono la sua purezza. Io, ViNo, ero la sua terza gravidanza, la più fanatica delle quattro. Qui, nel 2000, le ruspe di Carrefour vennero a sciogliere i tralci dalle loro favole splendenti, perirono i pampini, questi docili servitori delle nostre pudiche censure, caddero gli ultimi raspi e addio vigneto, addio nonni, addio ramo d’ulivo. Addio foglia di fico, la dolce Uva che sul rovescio delle zolle lasciò cadere un altro chicco...
Ai miei primi passi nel vigneto ricordo che presi a inciampare e a cadere, poi caddi dai covoni di paglia sull’aia, caddi dalle scale della soffitta, dai muretti a secco, non capii subito che cadere e rialzarmi era nella mia natura. Qui, in questa valle, fermentai nel sonno zuccheroso degli acini e voi sapete cosa vuol dire nascere dolci, amabili, che vi vengono dietro le volpi e i flauti d’ogni genere, che vi corteggiano con la poesia per indurvi all’amore e al sonno. Io, ViNo, ero molto legato alla dolce Uva e quando lei perì me la strinsi forte al cuore, la cercai in altre valli, in altri chicchi sparsi tra le balze, i dirupi dove le strida delle rondini sono più acute, e in tutto questo ardire e bramire come un cervo ferito, la sua voce, un tempo chiara e lenta, oggi imperiosa mi sussurra:“ ViNo, amore mio, lasciami, ché per dove mi porti non è la strada che sogno, lasciami sognare ancora una volta, non tenermi stretta ai tuoi sensi di acciaio se non vuoi che il tuo vino si trasformi in acqua e che l’acqua fugga impetuosa da queste notti di luna stagnante...”
La mia compagna è l’ebbrezza che è un’amica, una rondine, un istante di primavera. Confesso che più volte la sera me ne torno a casa con lo sguardo liquoroso di un vino che non ho neppure assaggiato, torno a casa con lo sguardo rivoltoso del sangue che palpita inutilmente senza una via d’uscita. Passano linee di febbre attraverso le strade ma tu, Uva, mi ricordi che il mio paese in certe ore del giorno sa ancora di olio e di vino e che nel tuo sguardo l’oro dell’uno è fuso col gelso rosso dell’altro. Ti ho rivista in un’edicola, muovevi le mani, gli occhi, le labbra, il viso, non sei una madonna, lo so, ma se mi parli per farti guardare dentro i sogni, questo è il vino che amo, se mi parli per farti vedere nel cuore, questo per me è il raro momento in cui le madonne degli archi ridiventano mamme e il vigneto si riaccende d’azzurro e oro; se mi parli di te perché di te si conosca la verità dell’anima e perché la verità ti protegga nuda dagli occhi, allora io, la volpe e i flauti, dopo averti annusata e goduta sotto l’arco, andiamo via in punta di piedi come cani bastonati...
Se la verità dell’anima è il mio vino, questo vino non è ancora il calice che vorrei vedere sull’altare, il calice che sostiene le rinunce. Il bicchiere che conforta le rinunce non brilla, è un calice grigio, di peltro, spunta come un fiore sospetto dietro una frasca o nella penombra di una cucina puzzolente, cade dalla tavola e dagli alberi sonnolenti sul pavimento, nessuno lo raccoglie, nessuno, nel grigiore dell’alba, raccoglie il povero scoiattolino al quale una sega elettrica ha distrutto la vulva del carrubo in cui si rintanava contento.
“ Il tuo nome è Vito ma io ti chiamerò ViNo, ” disse una fanciulla. Le cose dette e fatte dalle bimbe hanno un che di assoluto e meraviglioso come i loro disegni che tarpano le ali alle idiozie e mostrano i quadrati, i triangoli, le sfere dei capelli e delle foglie. Per un istante pensai che fosse ebbra, che la mia voce avesse tradito il liquore che era in me, giocai con questa sua poesia e di lei non ho altra memoria che il suo segreto.
“ ViNo, tu mi fai dire cose che non voglio, storie che di giorno se ne stanno rintanate in un nido di aquiloni e di sera, dopo un primo sorso, sono più garrule di usignoli. Ti avrò dato a intendere che tradirei il mio ragazzo, vero?.. ”.
“ No, Uva, rassicurati. ”
- E allora di cosa abbiamo parlato reggendo i bicchieri di carta con il rosso stivato a Brindisi in questa nave? ”
“ Parlato? Io e te ci siamo bevuti, piccola, il nostro è stato uno scambio di informazioni sul vigneto tra due amorevoli spie che, finita la scorta di vino con cui riscaldarsi, guardavano all’arazzo della mensa come ad un prezioso sacco a pelo in cui infilarsi la notte per abbattere il freddo sul ponte... ”

“ Il vino non ha mai chiesto aiuto,” grida la valle orgogliosa, e mi ricorda il mite bevitore che non scacciava da sé i moscerini del mosto e se ne riempiva la bocca e il cuore mordendo l’acino corrotto dall’uccellino. Racconta, questa valle, che al cadere della roncola dal suo pugno, la mano gli s’aprì e furono liberate larve di volontariato che lo strapparono al tessuto della vigna, che in un fodero di pampini portato alla cintura è infilata la forza della nuda volontà e del suo soccorrevole istinto perché altro non sa fare, il mite bevitore, che servire il mondo osceno degli annegati profondendosi in argute geometrie tra cuore testa e pampini.
E forse, di pampini furono gli amori che prima delle armi discero sognanti da altri mondi, noi venimmo dopo, al loro tramutarsi in doglie, noi venimmo dopo, e al loro tramutarsi in foglie ne avemmo sete.
Nei moderni arazzi che mi capita di respirare nello stormire domenicale delle piazze, i personaggi che prendono parte all’ozio e ne degustano il vino sono intessuti dei fili di una clientela raggiante e chiassosa che brinda a se stessa e al divino cliente, al cliente che non rinuncia al piacere, che non rinuncia al piacere di tradire e che tradisce pur di bere al banco dove tutti bevono dove tutti chiacchierano e bevono in coppe scintillanti di un irreale vigneto.
Che il vino fosse una vera creatura l’ho saputo quando una sera lo versavo lentamente nel lavandino perché era andato, m’usciva con fierezza dal collo della bottiglia come da una ripida vagina odoroso di animale e corpo vegetale, anima di Vinolupo dal pelo rossiccio, ma ancora più cupo, che perdeva l’agguato. Io mi incantavo nel vederlo uscire a fiotti e a singhiozzi nello stato in cui aveva la forza di sbranarmi le viscere se lo avessi bevuto, una vera bestia, una fulva bestiola che stramazzando sporcava col suo musetto sporco di rosso i dintorni del vicinato sbiaditi da un pallido tramonto, povero caro, così simile al mestruo di una fanciulla, tenuto assieme fino all’ultima goccia da un fuoco che andava spegnendosi, diluendosi nell’acqua. Svanì come un delinquente nel mondo indistinto dei nostri liquami.
Ho appena finito il sale ed io fingo con me stesso questa assoluta disgrazia di non averlo in tavola. per entrare in un piccolo cuore di serva e goderne il pallore sgomento. Ricordo quando mi toglievo la sete alla neve del tuo viso, sedevo sotto l’arco del tuo sopracciglio nella luce abbagliante del tuo sorriso. Che delizia quei viaggi intorno alle tue ciglia pettinate, uguale mistero di quando costeggiavo le isolette dei pampini e misuravo a piccoli passi l’orlo frastagliato del loro infinito.
Ho appena terminato le parole figlie di Uva, ho finito le foglie acuminate dei ricordi, ho finito la stagnola in cui avvolgere i pensieri per farne lucenti guerrieri. A tarda sera ho macchiato la tovaglia di vino ma, credetemi, ero felice come un bambino, e anche la macchia di vino era felice di restare con me, lo vedevo da come si aggrappava alla mia solitaria cucina e ne divorava i tovaglioli, questi famigli di carta dal candido pelo dei conigli.
A metà giornata c’è una perdita di sole negli umori della valle e un rumore d’ombra che plana da uno stormo di passeri. Una vite dimenticata dalla ruspa è stata lasciata sola a inselvatichirsi, ha il profilo di Uva e non le serve più la foglia di fico, ciò che è selvaggio è riguardato come se fosse puro. A metà giornata le mosche trovano l’uscio spalancato e festeggiano il ritorno a casa. Amo il loro animalesco beffarsi delle finestre chiuse, sono brave a farsi vive per dirmi che furono scacciate dappertutto ma non sterminate.
Nel pomeriggio sono pieno di vergogna per averti cercata dove non potevi esserci, in una chiazza di vino sul pianerottolo che la lingua di un cane ha asciugato, ho bisogno di rinforzare quel contegno d’uomo che si è dato per vinto e di prendere ancora la medicina, la mia medicina è la foglia di qualsiasi cosa, il suo ventre piatto, la sua guancia. E bevo, me ne basta solo un dito per vedere risorgere il sole dalle mie narici. Sembro un pellerossa.
Vino, sei tra le poche braci che si possono tenere tra le mani, sei l’amore delle persone timide e sole dalla parola complicata, l’amore di chi è spento prima che sia inverno l’amore che qualcuno ha ucciso, sei il sangue dell’ucciso. ViNo ViTo ViNo che scorri e arrossi le mie guance, vuoi che la mia lingua che ti assapora sia la ragazzina ciarliera del bosco, oh come la desideri, ViNolupo, vuoi essere preso e tenuto a sguazzare sul suo roseo e morbido palato. Che fuoco questo sconcio rito d’amore sputato dall’oscuro cordame di questo arazzo e bevo, se non è già aceto, e la mia bocca pastosa è un altare in cui si stanno celebrando strane nozze.
...Il vino che va ad aceto non è affatto morto, ha solo acquistato più forza, un’altra splendida forza, ha perso quella sua timida bocca da adolescente che lo rendeva dolce amabile, adesso è come un gigante e come tale verrà sparso leggermente su cose e mucose delicate, delicate come le verdure, le tenere insalate. Lo verseremo col contagocce come se fosse il più prezioso dei farmaci, gocciolerà dal tuo palato dialettale, amore mio, brucerà i taglietti, gli orli delle ferite. Sarà passato in un’ampolla, la tavola prenderà un odore sapiente di infermeria e con te vicino, Uva, lo adoreremo, bruceremo d’amore con questa sua fierezza sulle labbra.

Chi ama scrivere della propria vita col sangue
chi ama rivelare il suo tormento

se non è un dolore che si concentra nelle ossa
nelle teste delle more e dei capezzoli

se il biasimo che viene da una vita senza gioia
se il collo ti si piega alla fuga delle lacrime

se hai una sofferenza che rende scialbo il tuo sguardo
se il tuo venire è lento

se non sai correre di più
per una felicità che è solo degli altri

se mi lasci prima che il mio nome
sia stato consumato dalla tua voce

se non mi attendi più la sera
nel mare dove hai immerso il tuo seno bianco

se brancoli e non sai più cosa fartene delle braccia
che non stringono più con amore

se di una casa ami l’ombra e il suo albero
ma l’albero ad alto fusto
getta lontano l’ombra della sua piccola chioma

allora bevi al mio calice che è colmo di azzurri
di azzurri che sono diventati verdi e viola
di teneri viola
con una tenera luce rosa al centro.

Postafazione

In questa raccolta la storia personale dell’autore, limitatamente al momento magico dell’infanzia, si intreccia e si fonde a quella di un “mitico arazzo”, ne viene ripresa e trasfigurata, ma non rinuncia a lasciar affiorare nel fondo le tensioni di un rapporto edipico mai rivelatosi del tutto, mai del tutto consumato sì dal stare al passo con la mitologia. Nell’intreccio del manufatto si può dire che Oriente ed Occidente si incontrino e si misurino ancora una volta con la favola del lupo, del Vinolupo, e nell’estrema decomposizione del vino in aceto, ossia della forza in terrore distruttivo e osceno, riguadagnano il momento di un rito, le nozze che, per quanto strane, non dovrebbero offendere nessuno, così come non offende l’amore tra corpo animale e vegetale, altro connubio già da tempo intravisto nella poesia di Emily Brontë.

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