venerdì 1 agosto 2008
luca 6-13
Labirinto di Leonardo
Continua su Divinando la pubblicazione dei racconti segnalati per il Concorso letterario di Villa Petriolo, edizione 2008.
I complimenti di Villa Petriolo ad Andrea Ciresola, autore del racconto "Luca 6-13".
Andrea Ciresola, nato a Verona nel 1961, vive la sua vita a Monteforte d'Alpone (VR) con la moglie Gabriella e i figli Alice e Alberto. Si occupa di restauro e conservazione delle opere d'arte dal 1982, anno in cui diventa artigiano. Da sempre coltiva la passione del comunicare, realizza infatti opere di arte visiva, teatro e scrittura. Ha messo in scena la commedia "Buono da morire", pubblicato il romanzo "Una fragola per capello" (Perosini editore) e il racconto "Vangog" (edizione ETS/Perosini editore).
Nel 2007 ha vinto il premio letterario Villa Petriolo "I paesaggi del vino" ed è stato fra i vincitori del XXV Premio Firenze.
racconto
"LUCA 6-13"
di Andrea Ciresola
« Chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici,
ai quali diede il nome di apostoli »
Si fa presto a dire Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni. Ultima cena, Vangelo, in nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo, amen! Per quanto mi riguarda la storia dei Dodici Apostoli segnò tutta la mia vita e non per eventi di fede. Tutt’altro.
La vicenda ebbe inizio molti anni fa, in un pomeriggio passato a Sotheby’s dove all’asta vennero battuti alcuni dipinti del Seicento italiano. Londra ama il Seicento italiano.
Anch’io.
La Direzione di M.me Tussaud’s, il museo delle cere, si risentì di quella mia ennesima assenza, tuttavia lasciai il laboratorio di restauro di cui ero il responsabile, per uscire dal portone secondario e dileguarmi tra la gente a passeggio. L’asta più appassionante quel pomeriggio fu per un dipinto, scuola di Annibale Carracci, 76x85 olio su tela, dove vi era rappresentato un curioso labirinto di vigne, tralci e grappoli d’uva. L’immagine del vigneto, notturna e dominata dal candore della luna, riportava nel cielo nuvole aggrovigliate, ora in luce ora confuse con la notte. Forme riconoscibili di donne, abbracci, amori saffici.
“Centonovantamila uno, centonovantamila due, centonovantamila tre! Il labirinto, olio su tela di scuola italiana è aggiudicato al signore là in fondo, con i capelli bianchi per centonovantamila euro. Grazie!”
Il signore là in fondo con i capelli bianchi rispondeva al nome di Giorgio Antelami e quando mi avvicinai per congratularmi con lui, la mia vita cambiò. Ad un primo sguardo, l’avevo definito, come tutti quelli che lo avevano conosciuto, un uomo d’altri tempi.
La famiglia Antelami vantava un albero genealogico piantato in terra ben ottocentosedici anni prima da Antelamo Antelami e Isadora di Altavilla e da allora la stirpe aveva fatto storia con personaggi di eccellenza..
Nonostante lo stile antico Giorgio Antelami fu uomo invece che seppe coniugare tradizione e modernità attraverso l’uso moderato di genio e sregolatezza. In questo non si smentì nemmeno nella sua uscita da questo mondo.
“Collezionista d’arte?” chiesi quel pomeriggio a Sotheby’s.
“Produco vino! Italia.” rispose secco, ma in quel dare la mano e ritrarla, proferire parole e accenti, qualcosa, non so cosa , fra di noi accadde.
Lo servii per ben ventidue anni.
Il primo maggio di un anno qualsiasi l’uomo fu trovato riverso sulla scrivania preferita con a fianco un bicchiere di vino rosso decantato da una bottiglia del 2004. Una vendemmia memorabile che le Cantine Antelami avevano interpretato con un Chianti leggendario.
Davanti alla bara in legno di ulivo, nella camera ardente c’era il foglio con le sue ultime volontà e la gente sfilò davanti alla salma e al testamento con uguale rispetto e commozione. Le onoranze funebri avevano lavorato in modo perfetto, utilizzando gli stessi abiti dell’ultimo giorno come previsto dal signor Giorgio. La salma sembrava una statua. Per arrivare alla villa, i mezzadri delle sue terre, quelli degli altri proprietari, le autorità, le amanti e le mogli, gli amici, insomma tutti avevano percorso a piedi un sentiero che scriveva le iniziali del suo nome sulle colline nei pressi di Firenze.
G. A.
Anche oggi tutto mi riporta a quel pomeriggio londinese quando, in men che non si dica, mi convinse a trasferirmi a casa Antelami nel cuore dell’Italia per realizzare un vigneto con la forma di quel labirinto. Ci vollero un paio d’anni e non fu nemmeno difficile. Altra cosa, invece, fu realizzare il progetto che il Marchese aveva espresso nel testamento: bisognava, dopo la sua morte, convincere i dodici proprietari confinanti con le terre delle Cantine Antelami a percorrere il labirinto per scoprirne il segreto. Una volta usciti dal vigneto e carpito l’arcano avrebbero potuto acquisire quella parte di terre confinanti con la proprietà dell’Antelami. Se non ci fossero riusciti avrebbero dovuto affidarsi al destino che la sorte (e il viaggio nel labirinto…) avrebbe scelto per loro e il pegno di consegnare i vigneti alle Cantine Antelami.
Il signor Giorgio Antelami nel testamento fece assumere ai dodici confinanti il nome degli apostoli e questi accettarono la sfida.
Cosa nascondeva il labirinto?
Di forma rettangolare, duecentodieci metri per duecentonovantasette, il labirinto di viti occupa tutt’ora il lato est del grande brolo della villa e arriva fino al giardino all’italiana, dove una tauromachia di roseti racconta storie di toreri e belle donne. Un’invenzione rinascimentale con varietà di rosa che inebriano i sensi fin dentro le stanze della villa e, ovviamente, nei meandri del labirinto.
I filari di vigna sono disposti con misteriosa geometria e da un ingresso si accede, se si riesce a scoprire la strada, nel cuore del labirinto dove si trova una torre senza finestre, costruita in blocchi di marmo Carrara. Un solo ingresso; da una scala esterna si accede sul tetto della torre ad un terrazzino utile per individuare la via d’uscita. Un labirinto di Sangioveto, Canaiolo, Malvasia con qualche pianta di Trebbiano, disposta qua e là secondo le storiche indicazioni del Barone Bettino Ricasoli descritte in un documento della metà dell’Ottocento di proprietà del signor Giorgio. Piante disposte ad arte, discusse, scelte, amate. Pensate.
Gli apostoli entrarono, uno alla volta, uno per anno nella stagione dell’uva matura, a metà settembre, andando incontro al loro destino, pieni di speranza. Sicuri della vittoria.
Per nessuno di loro fu così.
Dopo che Pietro fu entrato, alle 14 del nove settembre e dopo che tutto il mondo l’aveva visto in religioso silenzio prima sul terrazzo, poi nella torre e aveva atteso la sua uscita fino a notte tarda tanto da azzittire le cicale prima e grilli poi… dopo tutto questo, la gente se ne tornò a casa rinchiusa nei suoi pensieri, ma sicura che l’Apostolo Pietro non sarebbe più tornato. Gli stessi pensieri ebbero per Andrea, Matteo e Giacomo e poi per tutti gli altri.
E quelli furono giorni di silenzio per le cicale e i grilli.
Pur sapendo quale rischio potevo correre, ma con un inconfessabile segreto che mi ero portato nel cuore per ben dodici anni, il tredicesimo settembre di quell’incredibile serie, fu il mese del mio ingresso nella selva di Sangioveto e Canaiolo e Malvasia. Trebbiano qua e là.
Piante di rose damascene, della rara varietà purpurea, modellavano i corpi dei toreri e la chioma di Lucia Bosè. Nell’arena spettatori in visibilio. Settembre.
Entrai.
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