lunedì 20 ottobre 2008

grappoli di memorie


Foto tratta da Scatti e parole





"Grappoli di memorie", il racconto di Daniela Caruso per "I giorni del vino e delle rose".

Tanti auguri a Daniela, nata a Napoli, dove abita, il 20 ottobre 1985.
Daniela Caruso ha vinto nel 2007 il terzo posto del concorso "Fiabe natalizie" edizione 2007, organizzato da "Gli amici della montagna ONLUS" e, nello stesso anno, partecipa al "Premio Nazionale di poesia Beato Gaetano Errico", IX edizione.


Racconto

"GRAPPOLI DI MEMORIE"

di Daniela Caruso



A tanti anni di distanza, ricordo con piacere le allegre passeggiate in campagna di quando ero ragazzino,all'insegna di pic-nic sui prati verdi, baciati da un sole accecante e caldo, che riscaldava il cuore e l'anima di noi semplici abitanti di campagna. Giulio amava mangiare ai bordi del fiume, e devo ammettere che anche a me non dispiaceva: mi rilassava bagnare i piedi nell'acqua tiepida, far scivolare il velo dell'inverno dalla mente e dal corpo. Ma, puntualmente, tra un manicaretto e l'altro, udivamo la voce di nostro nonno che ci rammentava che avremmo dovuto dargli una mano a preparare il vino per il prossimo inverno.
Voleva sempre l'aiuto mio e quello di mio fratello Giulio: diceva che le nuove generazioni non capivano ciò che la natura potesse offrire con i propri frutti,e che un giorno, a causa delle nostre manie di distruzione, la natura ne avrebbe risentito notevolmente.
Mio nonno era un tipo all'antica: uso il passato perché ormai ci ha lasciati da un bel po', ma il suo ricordo nella mia mente è ancora vivo, vivissimo. E ciò che mi fa pensare a lui è osservare le vigne della sua terra. Guardando dalla finestra della mia stanza, infatti, questo piccolo appezzamento spiana il terreno dei pensieri, delle memorie, della tristezza di non averlo più accanto: lo vedo da lontano che si cimenta a prendere i grappoli d'uva. Aveva un modo tutto suo di testare la bontà del suo lavoro. Odorava l'uva chiudendo gli occhi, come se ne assaporasse il gusto attraverso l'olfatto, e dopo un intenso respiro, ci guardava e diceva “Ragazzi, abbiamo fatto un ottimo lavoro quest'anno”, e quando lo diceva negli occhi brillava una luce di soddisfazione unica. Raccoglievamo attentamente l'uva, e la riponevamo nel piccolo spiazzale che lui aveva adibito per la lavorazione dei grappoli.
Con i piedi scalzi e i pantaloni alzati al ginocchio, pestavamo l'uva: i piedi diventavano viola, l'odore iniziava a salire alle narici e ci inebriava la testa, ancor prima di bere un solo bicchiere di vino. E mio nonno ripeteva continuamente: “Su,su,saltate, schiacciate, che siete giovani”. E, quando sbuffavamo perché magari volevamo andare a giocare al boschetto vicino, ci sgridava e diceva: “Fannulloni, il vino, un tempo, era una bevanda per signori, per ricchi, dovreste essere contenti di poterne creare per voi e per la vostra famiglia”. Per lui il vino era tutto: era una dolce nota che accompagnava la bella stagione alla porta del rigido inverno, un lavoro da prendere sul serio, una ragione di vita che andava al di là della semplice lavorazione dell'uva. E, quando tutto era pronto, la cantina dove si riponevano le bottiglie e le botti ancora da svuotare, iniziava a colorarsi di un qualcosa di magico, si illuminava tutto, forse perché in quel piccolo spazio era interamente concentrata la fatica della produzione e l'appagamento del risultato finale.
Mi vengono in mente i banchetti di famiglia che mio nonno,puntualmente,ogni domenica organizzava in casa sua. Per lui l'unità familiare era un elemento fondamentale, e cosa, meglio di un pranzo, poteva mai tener insieme una famiglia numerosa come la nostra. Prima di iniziare a mangiare, di rito, voleva che ringraziassimo il Signore per ciò che ci aveva dato e per la forza che aveva infuso in lui e in noi per la produzione del vino. In quei momenti ci veniva un nervoso assurdo, avevamo faticato così tanto per il vino e poi a tavola ci veniva negato di berne un po', perché per mio nonno, ma anche per mio padre, eravamo “ancora bambini”. Oggigiorno questo discorso non si pone affatto, poiché a sedici anni si beve il vino e non solo, ma allora erano altri tempi, vigeva un'altra mentalità che forse, anche con i suoi aspetti negativi, tutelava le generazioni e i comportamenti; ogni bambino o ragazzo doveva rispecchiare la propria età, senza pensare di poter simulare, prima del tempo dovuto, gli atteggiamenti di un adulto.
Qualche giorno fa mi sono diretto nel vigneto. All'entrata mio nonno aveva appeso una tavoletta di legno sulla quale vi era incisa una frase di Baudelaire che recitava così: “Chi non beve vino ha qualcosa da nascondere”. Un uomo di semplici origini e di carente istruzione che citava un poeta. Ebbene sì: anche se lui non aveva una cultura alle spalle, sapeva delle cose che andavano al di là dell'apprendimento scolastico. Rileggendo quella scritta, apparentemente semplice, dopo tanti anni in cui non me ne ero curato, capivo finalmente cosa volesse intendere mio nonno al tempo: bevendo vino, le persone si raccontavano, gettavano la maschera che avevano addosso, facendo emergere la loro vera essenza, come se fossero “schiacciati” sotto ai piedi come chicchi d'uva dai quali sarebbe poi uscito il succo. Insomma come diremmo oggi, convenzionalmente, “in vino veritas”, e su questo il nonno non aveva tutti i torti. Mi sono seduto, poi, su un secchio rovesciato all'ingiù e mi sono venute in mente le storie che mi raccontava sul vino. Era un uomo di radicata fede religiosa e riconduceva tutto ciò che accadeva a spiegazioni di natura biblica. Mi raccontò, infatti, che la stessa Bibbia attribuiva la scoperta del processo di lavorazione del vino a Noè: egli, infatti, dopo il diluvio universale avrebbe piantato una vigna con il cui frutto fece del vino che bevve fino ad ubriacarsi. Dalla vigna mi sono spostato alla piccola cantina. Qui mi è venuta la voglia di aprire una di quelle piccole botti di legno dove un tempo era conservato “il nettare degli Dei”,come lo chiamava lui. Alzando il coperchio, con mio stupore, è emerso un vago odore di vino. In quel momento, ulteriori ricordi sono balzati dai cassetti della memoria.“ Fin dagli inizi del mondo gli uomini bevevano vino, questo lo dovete sapere, pure i grandi romani lo bevevano!Loro si che capivano le cose buone della vita!Però un tempo mica era già così buono il vino..no,no! Era più alcolico, si doveva mischiare con le spezie e il miele per poterlo bere, e per farlo diventare più saporito. Sai come si dice?il vino santo è buono e bello, ma fa presto girare il cervello!”. Rigorosamente, dopo aver pronunciato quest'ultima frase, scoppiava a ridere. Garantisco che le sue risate erano così rumorose che si sentivano al di là del vigneto; facevano ridere tanto anche me, erano contagiose, come uno sbadiglio. E tutt'ora, al sol pensiero, mi viene da sorridere.
Gironzolando per la cantina ho trovato, fra gli scaffali, una bottiglia di vino non ancora stappata. Lo aperta. Ho bevuto. Squisito. Avrei voluto condividere quel bicchiere con mio nonno; ma ero solo. Vorrei rivivere tutto ciò che abbiamo vissuto insieme, vorrei imparare nuovamente e per milioni di volte tutto ciò che mi hai insegnato, non mi stancherei mai, e non sbufferei affatto come facevo da bambino. Desidererei averti vicino perché con la tua forza e la tua presenza avrei affrontato al meglio i momenti difficili, perché eri e resti un uomo dal quale si può comprendere davvero cos'è la vita. Purtroppo ciò non è possibile; posso solo affidarmi alle tue parole:“ Un bicchiere di vino è la cura contro la noia e la paura”. Lo spero. Alla tua, nonno.

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