martedì 21 ottobre 2008
I giorni del vino e delle rose di gabriella zanotto
Intreccio di Silvana Bissoli
Ancora un bel racconto per la nostra raccolta de "I giorni del vino e delle rose". Ne è autrice Gabriella Zanotto.
Gabriella è nata a Camposanpiero (PD) e risiede a Quarto d'Altino (VE).
Laureata in lingue e letterature straniere (francese e inglese) all'Università Ca' Foscari di Venezia con una tesi su Marcel Proust e l'opera "Jean Santeuil", attualmente è impiegata nell'ufficio commerciale estero di un'azienda della sua zona. Scrive di sé: "Mi piace scrivere da sempre, ma fino a qualche mese fa era una passione solo privata. Da novembre 2007 a maggio 2008 ho frequentato un corso di scrittura creativa al Circolo Walter Tobagi di Mestre e mi sono resa conto che mi piacerebbe dedicare a questa attività molto più del tempo attuale. Il mio sogno è quello di diventare una scrittrice professionista".
Racconto
"I GIORNI DEL VINO E DELLE ROSE"
di Gabriella Zanotto
Non sono tanto sicura sia la decisione giusta, ma non potevo restare in città. Ho bisogno di sentirmi scavata dal dolore, in questo stesso scenario. Solo così sarò libera di continuare ad amare i luoghi che mi ha regalato e che ho sentito dentro più della sua stessa presenza.
In questi vigneti scoscesi sul mare mi sono nutrita di vento, di pietra, di mirto e di sale.
Solo qui posso attutire lo scempio di parole vuote e dolciastre, che avvelenano.
Che senso hanno le “spiegazioni”, le analisi psico-pseudo? Sono mai servite a ricomporre qualcosa? O con me ci vuoi stare oppure no. Punto. Da qui in poi me la vedo io. Sono affari solo miei.
Di sicuro non me l’aspettavo, mi pareva di vederci chiaro. E invece ero distratta e stordita. E’ il mio stato naturale quando sono innamorata. Quello di tutti. Perdo il filo continuamente. Vedo ciò che mi fa comodo. I dettagli incoraggianti.
Qui ritroverò la calma.
Ora la fretta mi opprime. Ho fame di altri giorni, di tempo che faccia da isolante. E’ più che altro l’orgoglio a ustionarmi. Avrei voluto o dovuto farlo io. Ma continuavo ad aggiungere settimane. Rinunciando a lui temevo di perdere ciò che di me stavo scoprendo, una parte appena incontrata. E che l’aspra dolcezza di quei paesaggi sarebbe svanita insieme a noi.
Tante volte mi sono sentita fuori posto. Ma rimanevo, per la fragranza e l’irruenza dei colori che aveva dentro. Per come era intriso di natura e sapeva spogliarsi di ogni convenzione sociale quando tornava nei luoghi della sua infanzia. Lì, a casa dei suoi, dopo pochi mesi che ci eravamo conosciuti, abbiamo passato giorni intensi, faticosi, partecipando alla vendemmia di quello che un tempo era un grande vigneto, ridotto, col passare degli anni, a pochi ettari.
E’ tutto parte di me ora. E aspetta, e risale improvviso in dettagli distratti, armonici o dissonanti. E ritrovo lo stesso stupore, quello stesso respiro di vento, leggero, agrumato, carico dell’aroma intenso dei ceppi di rose abbarbicate agli estremi opposti di ogni filare.
La prima volta che vidi quel podere, in fiore, rimasi senza parole. Mi sentii confusa, catapultata in un’altra dimensione.
E mi innamorai, prima che di lui, delle sue radici, dei sentori che lo avevano alimentato. Dei petali di rosa che la madre pestava nel mortaio per farne marmellata. Mi innamorai guardandolo stappare una bottiglia, sorridendo del vezzo infantile che aveva di imitare il gorgoglio del vino versato generosamente.
Da quel florido vigneto misto nasceva un sapido rosso senza nome, ma dalla personalità spiccata, armonica, schietta, che racchiudeva le fragranze non solo di quella terra, dell’aria e delle rose ma anche del carattere di tutta una stirpe.
Fuori da quell’ambito Alberto diventava un altro.
Mai una volta che si potesse pranzare come Dio comanda, senza che si alzasse dopo il primo a lavare i piatti. Mi pare ancora di sentirlo: “Faccio in un attimo, gli accumuli mi innervosiscono”. Ma quali accumuli?! E tutte quelle telefonate della madre… “Cos’hai mangiato? Dove siete? Hai sentito tuo fratello?”. Una chiamata per ogni domanda. Gli creavano tali scatti di rabbia che mi inquietavo pensando al giorno in cui sarebbero stati rivolti a me.
Di cosa parlavamo in fondo? Idee politiche opposte. Ci si potrebbe anche ridere su… lui del partito del carrello e della minerale in bottiglia, io di quello del cestino e dell’acqua di rubinetto. Lui prodotti classici e collaudati, io sempre in esplorazione di marchi sconosciuti e stravaganze alimentari.
Conversazioni leggere, analcoliche. Scappava appena cominciavo a scavare… Avrebbe voluto che lo guardassi sempre da una certa distanza e senza scendere ai piani inferiori. Come avrei potuto? Ho un’anima da minatore io. O da talpa… E ho fretta, troppa credo, di arrivare al nocciolo duro. Cristosanto l’immagine che devi vendere al mondo là fuori a me non interessa. Io voglio altro. Voglio te. Mi piace la nudità, non posso farne a meno.
Solo tra le colline, i declivi lambiti dal mare, quando non portava la cravatta, io mi sentivo veramente con lui, lo riconoscevo.
Ora, tutto ciò che gli devo si è fatto groppo. E serra la gola.
Il gusto del vino, del cioccolato, dei frutti selvatici, io li ho conosciuti insieme a lui.
Dopo cena, ci sistemavamo nel terrazzo di casa sua lasciandoci dolcemente corteggiare dalla brezza estiva e dal brillare soffuso delle luci del porto. C’era qualcosa di fortemente mistico e sensuale nella silenziosa complicità che alternava cioccolato extra fondente a quel raro passito d’ambra che sapeva d’acacia e di nocciole, di rupe e d’albicocca. Lui accendeva un sigarino ed era così bello il suo profilo, il movimento delle mani che proteggevano la fiammella, che sentivo una contrattura interna, ovattata ma dolorosa. Poi mi offriva un tiro che io compivo lentamente, compiaciuta, facendo attenzione a non deglutire. Gustavo per qualche secondo quel sapore rude, pizzicante, nebbioso e poi lo soffiavo via, in alto. Mordevo un quadretto e bevevo un sorso. E il bacio che ne seguiva era morbido e fruttato. Inebriante. Un’essenza di bacio.
Io e lui comunicavamo così, con lo stesso modo di vivere il quotidiano, di apprezzare dettagli pratici, sensoriali.
Ma le domande e le risposte che ci ponevamo erano scollegate. Non centravamo mai la questione. Ogn’uno interpretava l’altro lateralmente. E questo pesava. Sempre. Ogni volta finivamo a discutere impiegando chilometri di sottotitoli. E questo ci stremava. Sempre.
Forse, se avessimo limitato le parole…
Di lui ora mi rimane una raccolta di foto: 365 giorni sul mare. E una radice. Entrambi nella libreria, sempre a portata di mano e di sguardo. Ne avrò bisogno ancora a lungo immagino.
Quel giorno, a Lerici, durante una delle nostre escursioni tra ulivi e macchia mediterranea, sarebbe ruzzolato per metri se non avesse trovato quel braccino vegetale pronto a bloccarne la caduta. Preso da un impeto di gratitudine, lui è fatto così, decise di strapparlo, cosa che si rivelò tutt’altro che semplice. Due settimane dopo me la regalò, quell’escrescenza di leccio, ripulita dalla scorza e lucida. Non avrebbe potuto essere più raggiante e orgoglioso neppure emergendo dal folto di uno dei filari gravidi d’uva tra cui amava cercare e sollevare come un trofeo il grappolo che riteneva perfetto.
Era solo una fibra legnosa contorta. Eppure quel gesto ebbe per me un significato eccessivamente profondo. Fu uno degli elementi che mi fecero perdere la concentrazione. Qualcosa in quella radice gli somigliava talmente tanto che mi sentii al sicuro. In quei meandri illogici e nodosi si celava, forse, il nesso che ci univa, quello che fino ad allora non ero riuscita a svelare.
E’ stato così che ho smesso di guardare dove mettevo i piedi.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
1 commento:
Complimenti!Mi ha commosso.
Posta un commento