mercoledì 15 ottobre 2008

la potatura


Ardengo Soffici, La potatura, 1907




"La potatura", il racconto di Leopoldo Papi per "I giorni del vino e delle rose".

Pubblico con particolare piacere questo racconto, scritto da un giovane produttore di vino. Mi ricorda i poeti della terra di cui parlava Veronelli...


Leopoldo Papi è nato nel 1978 a Torino, dove ha abitato fino all'età di quattordici anni. Frequentato il Liceo scientifico a Caracas (Venezuela), si è trasferito a Vada (LI) ed a Norwich (UK), dove ha frequentato come studente "Erasmus" la University of East Anglia. Laureato in Conservazione dei beni culturali all'Università di Pisa, dal 2004 lavora presso l'Azienda agricola di famiglia, la Pakravan Papi, a Riparbella (PISA).


Racconto

"LA POTATURA"

di Leopoldo Papi



Aprì gli occhi: la notte avvolgeva ancora la sua casa, il buio filtrava attraverso le stecche della persiana, dilatandosi nella stanza invisibile intorno a lui. Sapeva che erano le sei, d’inverno a quell’ora il suo corpo riemergeva dal sonno automaticamente, richiamato alla coscienza dal severo regime della vita di agricoltore, che scandiva anche i momenti del riposo. Era quasi metà febbraio, tempo di potatura, le giornate erano brevi ed occorreva sfruttare al massimo le ore di luce. Si alzò e si vestì rapidamente, indossando dei vecchi pantaloni ed un maglione bianco da montagna, di lana grezza, con un motivo a strisce marroni ondulate che gli conferiva un’aria singolare, da alpinista retrò, ma che lo avrebbe tenuto al caldo sotto al giaccone, ed al riparo dal vento che spesso, in questa stagione, sferza i declivi dei vigneti.

La potatura è un’arte difficile, che aveva faticato a padroneggiare. I semplici principi teorici su cui essa è basata si infrangono contro l’indefinita varietà casistica che le piante presentano alle forbici: ciascuna di esse pone problemi diversi e talvolta nuovi, ed occorre esperienza e perfino immaginazione creativa per scoprire la soluzione migliore. Il termine chiave, rifletteva, è: “selezione”. Da sempre questa parola lo affascinava, quasi fosse dotata di poteri magici. Come biologo ne conosceva le straordinarie implicazioni: le piante e gli animali, l’incredibile complessità delle forme viventi, lui stesso, erano il risultato di un lento processo di selezione naturale che aveva modellato le più diverse strutture organiche, tra le quali quei i grappoli di bacche verdi e blu-violacee alla cui coltivazione aveva dedicato la vita, e gli organi sensoriali con i quali se ne apprezzano gli aromi e quelli del loro prezioso derivato, il vino. In un certo senso, rimuginava assonnato, lo sguardo perso in una tazza di caffè, ogni volta che con un rapido gesto recideva un tralcio e le sue gemme per favorirne altre, in modo da consentire un migliore equilibrio nello sviluppo della pianta, aggiungeva solo un ulteriore episodio di deliberata selezione a quella storia ancestrale di cernite naturali. E il vino stesso poteva essere considerato il punto di arrivo di una sorta di evoluzione, tesa alla realizzazione di una particolare esperienza visiva, olfattiva, gustativa, in ultima analisi culturale… Vagamente compiaciuto e un po’ perplesso per la piega che stava prendendo quel pensiero, così bizzarro a quell’ora del mattino, decise di non avventurarvisi oltre: con un moto un po’ brusco, come per scacciarlo, si alzò terminando il caffè, si infilò il giaccone e uscì.

Fuori l’alba era pungente. Un vento affilato di tramontana discendeva dalle colline, accennandone i profili scuri contro i primi, impercettibili chiarori del crepuscolo mattutino. Si prospettava una bella giornata limpida, gelida ed asciutta, non rara in inverno da quelle parti. Nel deposito degli attrezzi, un basso fabbricato con un singolo spiovente in tegole rosse, che ricordava una costruzione etrusca, trovò ad accoglierlo l’espressione cordiale del fattore, un uomo ormai di mezz’età, non alto ma incredibilmente robusto, intento ad armeggiare intorno al trattore. Lo aiutò ad agganciare al veicolo l’impianto pneumatico per la potatura, collegando l’albero telescopico rotante che, attraverso i due giunti cardanici posti alle estremità, trasmette l’energia meccanica dal motore alle attrezzature. Ammirava l’intelligenza di quei dispositivi: lo sorprendeva il contrasto tra il loro aspetto grezzo e pesantissimo, e la sottile, stringente logica che ne caratterizzava i singoli meccanismi, ciascuno progettato per svolgere una specifica operazione, tutti insieme coordinati nel moto complessivo del sistema, in una sorta di stravagante sinfonia meccanica. La potatura veniva effettuata impiegando cesoie ad aria compressa, alimentate da un potente compressore a rimorchio, cui erano connesse mediante lunghi tubi a tenuta. Un pulsante sull’impugnatura degli utensili avrebbe azionato le lame, risparmiando agli operatori i dolorosi crampi e le tendiniti che da sempre accompagnavano l’uso delle forbici tradizionali.

Giunsero gli altri lavoranti: la moglie del fattore, una donna minuta e sorridente, e due operai ucraini, i cui tortuosi destini di immigranti li avevano condotti a imparare quel mestiere, per il quale avevano inaspettatamente scoperto di avere talento e passione. La piccola squadra si avviò dietro al trattore giù per i sentieri che conducevano ai vigneti, tra gli arbusti ed i ginepri della macchia mediterranea sempreverde, gli uliveti e qualche piccolo frutteto, spoglio ed assopito nel lungo sonno invernale.

Il Sangiovese era coltivato su un pendio declinante verso il mare, circondato su tre lati da orizzonti irrequieti: la luce del giorno rivelava ormai i piccoli borghi arroccati sulle dorsali dei rilievi più lontani, edificati dagli abitatori medievali di quelle terre per sfuggire ai pirati moreschi e all’impadulamento della pianura costiera. Giunsero alla vigna, una piantagione di circa quaranta filari, allineati su un terreno chiaro e friabile, cosparso di frammenti di roccia vulcanica. Nel corso delle generazioni, in un lento lavoro di indagine empirica, i viticoltori avevano individuato in tale suolo le caratteristiche ottimali per la delicata varietà di Sangiovese tipica di quei luoghi: la sua componente argillosa, impermeabile e capace di trattenere l’acqua, avrebbe assicurato alle piante la necessaria provvista idrica; lo scheletro roccioso avrebbe d’altronde impedito un’eccessiva produttività, favorendo la concentrazione del frutto e conferendo alle uve una notevole ricchezza minerale. Risalirono il margine della vigna verso l’ultima fila, dalla quale avrebbero iniziato il lavoro. Considerando, mentre camminava, l’importanza di quei fattori nella coltivazione della vite, un’idea inattesa si materializzò nella sua mente: la potatura inizia proprio là, nel geologico silenzio del sottosuolo. La scelta di quel terreno aveva rappresentato il primo, cruciale anello della lunga catena di decisioni che avrebbe gradualmente plasmato la fisionomia definitiva del vino, caratterizzando in modo unico ed irreversibile i suoi specifici tratti varietali, la sua acidità e composizione, la sua intensa trama polifenolica. La potatura delle singole piante altro non era che il momento di rifinitura di quel gesto fondazionale: ogni sforbiciata avrebbe influenzato la distribuzione della linfa al loro interno, la loro crescita e capacità di esprimere al meglio le potenzialità di quella tipologia su quel territorio. Ciascun taglio implicava la valutazione di una moltitudine di fattori, come la distanza dei tralci rispetto al tronco principale, le loro dimensioni e aspetto, la loro generazione, la distanza tra le gemme… un banale errore di giudizio poteva risultare fatale e forse irreparabile, causando danni che si sarebbero manifestati molti mesi dopo, in uve e vini poveri e poco equilibrati. Fu colto da una strana vertigine, soppesando tutti quegli aspetti e misurando la responsabilità che ne derivava, addensata sulla punta delle sue forbici. Era ormai curvo sulla prima piantina, che pareva osservarlo con un’aria ambigua, di aspettativa inquieta ma fiduciosa, o forse ironica. Alzò lo sguardo, esitante, cercando un segno, un’indicazione di buon auspicio: sul mare, al di là della pianura, le isole dell’arcipelago parevano grandi navi sospese sull’orizzonte; in alto un falco giocava immobile ed ignaro nel vento. Fu sul punto di rinunciare, ritirarsi, abbandonare quell’impresa, quella vita, quei pensieri. Poi, d’istinto, con infinita, elementare delicatezza, serrò le dita, premendo il pulsante sull’impugnatura: le lame scattarono, un tralcio cadde, una nuova giornata di potatura era cominciata.

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