martedì 14 ottobre 2008

riserve di dolcezza


Pino Santoro (1981)




Oggi pubblichiamo anche il racconto di Sandra Frenguelli "Riserve di dolcezza", per la raccolta dei testi in concorso "I giorni del vino e delle rose".

Sandra è nata nel 1964 a Perugia, dove abita. Dice di sé: "Ho 44 anni, una laurea in Scienze dell'Educazione ed un impiego in una società di informatica dove mi occupo di assistenza ai clienti sui prodotti sftware dell'area Human Resource". Compone racconti per passione e per il desiderio di dare forme diverse alle sue capacità espressive. Partecipando a vari concorsi letterari, ha conseguito, oltre ad altri riconoscimenti, due primi premi: nel 2007 ha vinto il concorso "One nigth stand, storie da una notte sola", indetto dalla Giulio Perrone Editore, e, nel 2008, ha vinto il concorso "Il Club dei poeti", indetto dal Club degli Autori.


Racconto

"RISERVE DI DOLCEZZA"

di Sandra Frenguelli



Sabato pomeriggio di un tiepido e delizioso maggio. Sono sdraiata in giardino, la pagina del test della rivista femminile che sto distrattamente sfogliando dice: “scopri che tipo di memoria hai”. La prima domanda recita: “qual è il primo ricordo legato alla scuola?”. Mi sorge un sorriso divertito sulle labbra perché la risposta immediata è: “l’odore di muffa del libro di geografia”…è proprio così, i miei ricordi si appoggiano più sull’olfatto che sulle immagini, è dall’olfatto che gli altri sensi traggono nutrimento per ricordare a loro volta. Avvicino il naso al calice che stringo nella mano sinistra consapevole che amo il vino soprattutto per il suo profumo, il gusto è successivo e nemmeno indispensabile, quando le labbra si bagnano il più è già successo, ho già viaggiato nella memoria, rivissuto e trasfigurato mani, carezze e terre che mi appartengono. Guardo attraverso la liquida trasparenza del giallo splendente e inspiro profondamente. Per primi sono i sentori di arancia e bergamotto ad insinuarsi nel naso, poi dondolano nella mente, come un bambino sognante su un’amaca, la morbidezza del miele, il pizzicore della cannella e un vago ricordo di mela selvatica. Il prezioso liquido diviene il viatico per immergermi nella memoria dei miei profumi, la mente si lascia portare su percorsi di aromi antichi. La testa si accomoda sul cuscino della sdraio e gli occhi si chiudono istintivamente come inebriati dalle essenze che salgono da ricordi lontani, il profumato viaggio è iniziato…mi conduce indietro, all’infanzia. Afferro l’odore del pastone per il ripieno dei tortelli toscani che faceva mia nonna: quella spezia, forse proprio cannella o noce moscata, da bambina mi faceva prudere il naso, e la mia mano di oggi, come se un granellino lanciato dalla fionda della memoria mi raggiungesse, si stropiccia il naso.
I ricordi continuano ad ondeggiare come il biondo vino nel bicchiere: gli archetti disegnati lungo il vetro paiono ponti che ricongiungono il presente ed il passato, colgo il suggerimento del mio “liquido maestro” e richiudo gli occhi per continuare il viaggio.
La casa della nonna nella Maremma toscana è intrisa di numerosi e odorosi inquilini. Quello dell’Acqua Velva massaggiata dallo zio sulla sua pelle appena rasata: odore di fresco, di primavera e di baci dati con la pelle liscia ad una bambina che si imbratta con la soffice schiuma da barba. Sento il ritmo costante e stanco degli zoccoli del ciuchino che sta salendo sul ciottolato sotto casa, acchiappo l’odore di stallatico, di erba tagliata di fresco che dondola sui cesti della soma, di cuoio impregnato di sudore che striscia sul pelo, non riesco ad affacciarmi sul davanzale, lo zio mi alza da dietro, saluto il ciuchino mentre l’odore intenso del basilico sul vaso mi fa starnutire. Dal salotto adoperato come dispensa, arriva l’aroma di uova e zucchero delle “pastine”, piccoli dolcetti secchi fatti in casa cosparsi di zucchero a velo: mangiarli trasformava tutti in dei piccoli clown dalle labbra bianche. La mia golosità di bambina predilige il “salame del re”, anch’esso preparato dalle mani sapienti della nonna. Ottengo di mangiarne un pezzettino insieme al latte caldo della colazione, mi lecco le dita sporche di cioccolata, la nonna mi pulisce accuratamente il viso con il suo fazzoletto cosparso di fiorellini rosa ed esclama soddisfatta “ovvia”.
Dopo la colazione si va a giocare, la palla è in cantina….nelle cantine dei miei ricordi ci sono botti che contengono i migliori profumi della vita.
Mmhh, odore di umido, di corde impolverate, di cuoio consumato, di funghi lasciati a seccare, di funghi che sporgono dalla legna ancora fresca che ci scalderà il prossimo inverno, odore di sughero bagnato dal vino e di posa di rosso robusto toscano nelle damigiane panciute, penso alle spalle altrettanto robuste che le sorreggevano, le spalle di quel nonno che non ho mai conosciuto ma ho nel naso l’odore dei suoi vestiti conservati nell’armadio, la naftalina penetrante, la fida lavanda e la mano morbida di mia nonna che sfiora delicatamente quei ricordi mentre sussurra commossa “caro”, come a voler accarezzare quell’unico uomo che ha amato. Quella mano porta con sé l’aroma dell’amore, che sa di talco e di violetta. Istintivamente dalla mia mano si muove una carezza sul calice che stringo: quella carezza sfiora i volti familiari di tante persone che vedo sorridere nella trasparenza del fidato nettare che facendo salire un grappolo di bollicine pare venirmi a dire, nel nostro muto dialogo, di continuare il viaggio.
Nel mio percorso all’indietro è arrivata la sera. Ecco l’odore rassicurante della minestra di ceci con i tagliolini fatti in casa: pastosi, morbidi, cremosi come il loro aroma, la mamma me ne versa un poco alla volta nel piatto affinché non mi bruci, assaporo il profumo del parmigiano appena grattato mentre il babbo me ne porge un pezzetto, con le dita carnose di bambina paffuta, afferro le briciole rimaste sulla tovaglia: mi gusto la minestra e la serenità che profuma di casa di quei momenti. E’ notte: l’aroma dell’infuso di malva selvatica lasciato a raffreddare si insinua nel naso, preferisco l’odore morbido del miele sciolto nel “latte della buonanotte”, così lo chiamava mio padre che mi invitava a berlo prima di caricarmi sulla schiena per portarmi a letto. Un bacino, le coperte a posto e il nasino che afferra l’odore della “Cera di Cupra”, rivedo i movimenti sicuri ed energici di mia madre su viso e collo, sento le chiacchiere sommesse con mia nonna mentre anche lei si prepara per la notte, dalla postazione speciale del mio lettino mi viene da ridere per la contentezza, una delle due si gira verso di me e dice dolcemente: “amore, dormi!”. Allora chiudo gli occhietti e mi immergo nell’aroma del mio cuscino che sa di pulito, di buono, di giorni perfetti di un’infanzia assolata.
Al risveglio incontro l’odore della “schiaccia” toscana, mia nonna si muove verso il mettitutto, quasi canticchia “ecco la schiaccina…per la mia cittina” mentre apre la carta del fornaio che scricchiolando rivela quel sapore unico di focaccia di cui ho ancora nostalgia. Le mie manine unte e infarinate imbrattano ogni cosa che toccano, gli occhi intrisi di sonno eppure vivi su quei giorni casalinghi, intimi, spensierati, industriosi e felici…felici d’una pace che funge da gran serbatoio di poesia a colui che l’attraversa avendoli vissuti.
Rientro dal viaggio e gli occhi si sono inumiditi, il sorriso sulle labbra è quieto e sereno. La memoria è ancora immersa nelle cantine profumate dei miei ricordi, mi beo del mio mondo olfattivo che le parole sono inadatte a descrivere e mi soffermo a riflettere che da bambina vivevo in quella casa nella Maremma toscana per due mesi all’anno, pochi rispetto alla casa di Perugia, ma qui mi sentivo “grande”, non una “citta” come dalla nonna, ma una bambina.
“Citta” è’ una parola che non conosce solitudine, evoca la familiarità, un’infanzia perpetua: la casa della nonna era il luogo della libertà di essere piccola, di esserlo sempre, di esserlo ancora. “Citta” era mia madre per mia nonna, io per mia madre, “citti” io e mio fratello …oh, sì, questa parola non conosce solitudine…sollevo il calice come a brindare alle “migliori annate” della vita.
Ora posso gustare appieno quel liquido d’oro prezioso che mi ha traghettato nel viaggio, mi ha fatto traboccare di emozioni e ha travasato i suoi unici effluvi in questo tiepido pomeriggio di maggio fuori dal tempo. Accosto il calice alle labbra come al Graal e mi abbevero grata e soddisfatta alla mia inesauribile riserva di dolcezza.

2 commenti:

pino santoro ha detto...

Sicuramente il tuo racconto ha arricchito ulteriormente il mio quadro.
Ciao,
Pino Santoro

silvia ha detto...

Grazie a Pino per il suo commento e complimenti a Sandra!
a presto.