martedì 4 novembre 2008

Di Silvia, Paolo, Alena, la Cinquantaccia. Ed altre storie.


Foto di Alena Fialovà





Venerdì scorso la giornata si è svolta con un crescendo emozioni e divertimento, per i quali ringrazio il lavoro che faccio e la terra che lo accoglie, con le sue straordinarie risorse di natura, arte, cultura, storie. E persone.

Dopo un inizio di pomeriggio, trascorso ad assaggiare vini su vini, affinché il percorso di Villa Petriolo ed il mio personale cammino possano continuare all’insegna della maturazione, ho finalmente incontrato gli amici Paolo ed Alena sul divano del Biancospino, il mio rifugio qua nella Tenuta di Cerreto Guidi. Un appartamento ricavato nel pagliaio della Villa, dal quale lavoro al pc, rimesto la mia uva nel bicchiere, come un alchimista con i suoi alambicchi, da una grande finestra tutta vetro osservo le vigne che degradano dolcemente a valle ed il piazzale su cui, per Halloween, si imbottiglia, mi godo il tramonto che sale. Bene, venerdì fuori piovigginava. Al caldo e nella penombra del Biancospino si stava bene. Alena, dai tratti fini di Principessa boema, lieve e silenziosa quanto attenta e sensibile, con la sua macchina fotografica coglie aspetti di me e del mio ambiente privato, tra la luce e l’ombra. La gatta Dina ci guarda. Paolo, l’amico Paolo, grande affabulatore, giornalista e appassionato di cultura locale, nonché autore per il nostro concorso “I giorni del vino e delle rose”, mi racconta di sé, domanda di me, mi stuzzica la mente ed il cuore facendomi ancor di più innamorare di Dino Campana, di cui è un appassionato studioso tanto da curarne con amore un importante sito web. Una chiacchierata ricca ed intima, a cuore aperto, perché Paolo ha una straordinaria capacità di tirare fuori ciò che dentro c’è, ma nascosto, seppellito, incrostato dai giorni e dal loro fluire tra impegni ed occupazioni talvolta frenetiche, ahime. Un incontro per un’intervista futura, sulle riviste di cui Paolo cura alcune belle rubriche, si è trasformato in un piacevole intrattenersi sugli argomenti, apparentemente, solo apparentemente, più disparati. Ad un certo punto, interviene la Cinquantaccia. Un caso di omonimia? Ginevra Innocenti, di Empoli, coinvolta nei fattacci del 1921, tristemente noti agli Empolesi, si maritò con un Maestrelli. Un parente? La mamma conferma che di parentele non ce ne sono – i Maestrelli ad Empoli sono tanti e non tutti imparentati – ma la figura di questa donna mi affascina, per la sua diversità, a tal punto che mi tornano alla mente ricordi familiari e della mia adolescenza di cui, ancora una volta, rintraccio fili che non si spezzano mai, neppure oggi che un po’ di tempo è passato….Allora, grazie infinite a Paolo ed Alena ed un brindisi al raccontare, al raccontarsi. Alla luce, alle ombre. E, sotto sotto, la storia della Cinquantaccia. Buona lettura.



La Cinquantaccia

di Paolo Pianigiani




Intanto ridiamole il suo vero nome: si chiamava Ginevra Innocenti, di Vincenzo e Marianna Michelotti, nata a Cerreto Guidi nel 1875, di professione trecciaiola (lavorante nel settore dei cappelli di paglia).
Si sposò l’11 Marzo del 1900 con Luigi Maestrelli, empolese, di professione muratore; ebbero due figli, Torquato, detto il Rossino, e Giuseppe. Abitavano ad Avane, nelle immediate vicinanze di Empoli. Decisamente un caratteraccio, se è vero che al momento dei "fatti di Empoli" del 1921, che la videro, almeno nell’immaginario popolare, assoluta protagonista, aveva già alle spalle diversi episodi che rendevano la sua fedina penale tutt’altro che immacolata: lesioni, ingiurie, minacce, porto abusivo di rivoltella e altro. All’epoca dei fatti aveva 46 anni.
- Pare che voi abbiate non solo la lingua lunga, ma anche le mani! Le disse, appena chiamata alla sbarra, il Presidente del Tribunale Mario Bosio.
Il cronista de La Nazione, nel suo resoconto del processo fiorentino del 28 maggio 1924, così ce la descrive: "Veste male, sciatta, noncurante, con un non so che in tutta la persona che dà un senso di ripugnanza." E’ già una condanna, senza appello.
L’accusa era terribile: due testimoni (uno dei marinai sfuggito all’eccidio e un ragazzino, Faustino Corti) dicevano che aveva infierito sul corpo di uno dei 9, fra carabinieri della scorta e marinai, che vennero trucidati, in quel terribile primo marzo 1921. Dissero che aveva incitato i presenti a tagliare un orecchio (forse il destro) al marinaio Incardone e di essersi vantata di averlo fatto mangiare il giorno dopo alla figlia Assunta. Ma il popolino, in seguito, disse cose ancora peggiori.
E lei come si difese?
Disse di essere vittima di calunnie, e che il giorno in cui avvenne il fatto non si era mossa da Avane:
- Non ho fatto nulla, sono innocente e calunniata!
L’avvocato Edlmann, a cui il Presidente aveva affidato la difesa d’ufficio, non potendo evidentemente l’accusata permettersi un difensore di fiducia, disse che l’accusa fatta alla Cinquantaccia era così terribile che non poteva che essere falsa: com’era possibile che una madre si fosse macchiata di un delitto del genere? Provò a dire che la testimonianza del marinaio Carollo, ferito gravemente, non poteva essere attendibile perché in quel momento si fingeva morto e non poteva aver visto e identificato l’autore o autrice del gesto ignobile, avendo gli occhi ben chiusi.

Sulla testimonianza di Faustino Corti, che aveva sentito dire che la colpevole era lei, all’avvocato non restò che sottolineare la linea durissima tenuta negli interrogatori, tale da far dire qualsiasi cosa a chiunque, figurarsi a un ragazzo.
La condanna, esemplare e immancabile, fu durissima e la riporto integralmente, dal libro di Giuliano Lastraioli e Roberto Nannelli, "Empoli in gabbia", edito nel 1995:

... per Innocenti Ginevra, anni 21 di reclusione per concorso in omicidio, più anni 7 per concorso in tentativo. Detratti da questi 4 anni e mesi 3 per gli indulti e cumulato il resto con la altra pena si hanno in definitivo anni 21 e mesi 6 di reclusione.

Nel suo recentissimo libro "Empoli antifascista", Paolo Pezzino, rilevando che nessun altro dei tanti testimoni oculari presenti ai fatti, aveva confermato di aver visto Ginevra Innocenti al Magolo, sul luogo del delitto, concorda con Jaurès Busoni, un altro protagonista della vicenda, che ha lasciato scritto:

"... quella donna che aveva la disgrazia di avere un passato litigioso registrato purtroppo anche nel suo certificato penale, e la più grande disgrazia di avere un soprannome curiosamente e caratteristicamente dispregiativo, che forse fu la causa della sua condanna, "la cinquantaccia" era una sventurata che nulla sapeva né mai si era occupata di politica, neppure fu presente ai fatti per cui fu condannata."

Rimane anche da dire che, dopo una analisi sommaria degli atti processuali e dei giornali che riportarono i fatti del processo, l’accusa di aver fatto mangiare l’orecchio del povero carabiniere alla figlia Assunta era palesemente infondata, dal momento che Ginevra non aveva figlie femmine e che Assunta era invece sua cognata

Ginevra Innocenti, che resterà per tutti la Cinquantaccia, morirà per paralisi cardiaca il 24 Gennaio del 1937, nella Casa di Reclusione Femminile di Trani. Avrebbe finito di scontare la sua pena, ridottasi per un paio di condoni a 16 anni, solo 20 giorni dopo.

Suo figlio, Torquato Maestrelli, detto Rossino o Nacchi, anche lui coinvolto nei "fatti di Empoli", arrestato e imprigionato alle Murate, era morto in carcere, per cause mai chiarite, pochi mesi dopo l’arresto, il 7 agosto del 1921.

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